Giuliano
Tre monaci, nella Russia del 1408, si stanno dirigendo verso la città di Vladimir. Sono tre pittori di icone, e il loro compito sarà quello di affrescare la Cattedrale dell’Assunzione; uno dei tre è molto giovane ma già molto ammirato, ed è Andrej Rubliov. Rubliov è il più grande pittore russo; la sua icona della Trinità esiste ancora oggi, ed è impressionante per bellezza e profondità. Con questo film, girato nel 1966, il regista russo Tarkovskij ne segue il percorso umano e artistico; ma lo fa a modo suo, cioè con rigore storico ma da artista altrettanto grande e profondo.
Ecco dunque che nel cammino (un cammino lungo e faticoso, a piedi e nel fango), i tre monaci con i loro apprendisti stanno per accamparsi per trascorrere la notte; ma c’è uno strano tumulto nel bosco, e Andrej si alza per andare a vedere. Sono tempi difficili, i tartari sono in agguato e anche dei soldati del Principe c’è poco da fidarsi.
Nel bosco, il giovane Andrej assiste a una scena strana, l’ultima cosa che pensava di vedere: uomini e donne nudi, che corrono tra le piante; corrono felici, si incontrano e si accoppiano tra di loro. Ne è stupito e soggiogato; ma non ha quasi il tempo di rendersi conto di cosa succede e si ritrova circondato. Tre uomini lo prendono e lo legano ad una trave di una casetta lì vicino: temono che sia una spia. Per questi riti antichi e pagani, forse una festa dionisiaca, l’accusa è di stregoneria e potrebbero esserci gravi conseguenze: cosa ci fa qui questo monaco, che potrebbe essere una spia?
Una giovane donna si avvicina ad Andrej. E’ nuda, appena coperta da una giacca di pelle, ed è molto bella. Bacia Andrej e lo libera; poi va a raggiungere gli altri, invitando il monaco a seguirla. Anche gli uomini che lo hanno legato se ne sono andati; Andrej è libero e nessuno fa più caso a lui. Potrebbe tornare dai suoi, e invece va a vedere cosa succede.
I festanti sono molti, e sono tutti dentro al fiume. Accendono dei fuochi dentro minuscole barche, e le mandano nella corrente. Andrej assiste di nascosto a tutto il rito, che anche noi vediamo; poi torna dai suoi, sporco di terra e graffiato in viso. Quando gli chiedono cosa è successo, risponde con frasi di circostanza.
Il giorno dopo, i monaci riprendono il viaggio; sono su una barca in mezzo al fiume, che si muove lento. Sulla riva, soldati e preti rincorrono alcuni dei festanti della sera prima: li hanno individuati e riconosciuti, una simile eresia non può essere tollerata. Una donna, forse la stessa della sera prima, viene presa; per salvarla, un uomo si sacrifica al suo posto; la giovane donna fugge a nuoto, nuda, con grande vigore e abilità; con poche battute si porta lontano e così si salva. Nel nuotare, incrocia la barca di Andrej; che però guarda altrove. Vediamo la nuotatrice che si allontana sempre di più, e la barca di Andrej muoversi lentamente in primo piano.
Tarkovskij si è beccato subito, almeno in Italia, una serie di aggettivi difficili da scrollare: sono quasi tutti piuttosto sbagliati, e alcuni in maniera sorprendente. L’aggettivo più solito è “mistico, misticheggiante, religioso”, o qualcosa di simile. Ai bei tempi lontani, quando Tarkovskij era ancora vivo e ben presente e si parlava ancora dei suoi film man mano che uscivano, fu il movimento di “Comunione e Liberazione” (una associazione giovanile molto vicina ai vescovi) a prenderlo sotto la sua protezione e simpatia, e a mettere il suo marchio sopra i lavori del grande regista russo.
Tarkovskij mistico, o magari religioso? Non direi, sicuramente lo era ma non in quel senso. Tarkovskij non era né mistico né dissidente; ebbe enormi problemi con le autorità sovietiche e in altri tempi sarebbe certamente finito in un gulag, ma nei suoi film non c’è né politica né religione. Tarkovskij era innanzitutto se stesso, da vero artista trattava temi personalissimi e insieme universali: un atteggiamento che ha sempre creato grandi problemi, in tutti i tempi e in ogni parte del pianeta. In questa scena si vede molto di quello che più affascina Tarkovskij: l’incontro del cristianesimo con le religioni primitive. E’ il tema fondamentale di Tarkovskij, una poetica che troverà un’evidenza chiarissima e innegabile nel suo ultimo film, “Sacrificio”.
Tarkovskij ha uno sguardo che non è il nostro, ha qualcosa di animalesco, di sciamanico, è uno sguardo che può disturbare. Questi nudi, quelli che vedete nelle immagini qui accanto, non hanno nulla di erotico: non nel senso che siamo soliti dare a questa parola, e che è un senso un tantino equivoco. E’ un erotismo naturale, non c’è nulla né di strano né di peccaminoso; e il rito a cui assistiamo è un rito di unione con la natura. Il male, il peccato, è altrove; Andrej se ne rende conto, e ha paura di questa rivelazione.
Bisogna far caso alle apparizioni degli animali, nei film di Tarkovskij: soprattutto ai cavalli, numerosi in questo film, o ai cani, come in “Stalker”. Sono immagini leggere ma potenti, prese di peso dai nostri sogni, e stanno ad indicare qualcosa che sappiamo ma che abbiamo perso di vista: ed è la nostra natura più profonda. Non è la ragazza nuda che spaventa Andrej, è proprio questa rivelazione; che, insieme alla rivelazione dell’orrore e della violenza (la violenza dei tartari, ma anche quella delle guardie del principe), lo spingerà a rinunciare al suo talento, all’arte della pittura. In questa sequenza c’è un’immagine, brevissima, che va sottolineata: ed è la tonaca di Andrej Rubliov che prende fuoco, per un attimo, davanti ai riti dionisiaci.
In realtà, io non so a che cosa si riferisca Tarkovskij quando mette in scena, con dettagli precisi, questa cerimonia notturna: non ho la necessaria competenza per approfondire il discorso. Riti simili sono stati descritti dai grandi antropologi, anche italiani (come Ernesto De Martino o Alfonso Di Nola), e ai loro scritti devo per forza di cose rimandare chi avesse delle curiosità in proposito. Li chiamo per mia comodità riti dionisiaci, ma qui siamo nella Russia più profonda, forse sarebbe più giusto definirli riti animisti, o sciamanici. Di questi riti fanno parte l’acqua e il fuoco; e ci si riferisce probabilmente all’antica teoria dei quattro elementi, della quale i film di Tarkosvkij ci raccontano molto più di quello che si potrebbe immaginare. Se in “L’infanzia di Ivan”, il primo film di Tarkovskij, l’elemento predominante era l’acqua, qui ci sono tutti i quattro elementi: l’aria per il volo iniziale, l’acqua del fiume, il fuoco, la terra per costruire la campana (nell’episodio finale), e il fango, e il paesaggio.
La teoria dei quattro elementi (acqua, aria, terra, fuoco) come costituenti del nostro mondo è ormai obsoleta, superata da molto tempo: almeno dalla metà dell’Ottocento quando un altro russo, Mendeleev, ebbe l’intuizione della Tavola Periodica degli Elementi, che i ragazzi di oggi studiano a scuola intorno ai quindici anni e che è l’alfabeto alla base del mondo in cui viviamo (dalla bomba atomica al polistirolo del supermercato); ma rimane nel nostro inconscio, e con essa dobbiamo necessariamente fare i conti se non vogliamo perdere la nostra natura più profonda; ed è questo che sembra volerci dire Tarkovskij con i suoi film. Sorprende dunque che Cl a suo tempo l’abbia preso in simpatia: forse i giovani ciellini dell’epoca non guardavano tutto il film (è un film molto difficile, non li biasimo), vedevano tre monaci all’inizio, poi andavano a farsi un giro, e tornavano in tempo per vedere la fine, col Crocifisso e l’icona della Trinità di Rubliov, a colori; e poi quei cavalli là in fondo, nell’ultimo fotogramma, cosa ci staranno a fare, boh. Quasi lo stesso equivoco dei nazistelli che basta che vedano elmi con le corna e Thor col martello e pensano che Wagner sia nazista come loro: ma questa è un’altra storia, che con Tarkovskij e con l’Andrej Rubliov ha poco a che fare.
Caro Julien,
RispondiEliminaancora mi ricordi che devo rivedere, a distanza di trent'anni, questo bellissimo film; la prossima volta aiutato dalle tue magnifiche escursioni nella pellicola.
Ciao, Maz
Beh, Tarkovskij è molto impegnativo; però sono trent'anni che cerco di andargli dietro, qualcosa ho imparato (forse...).
RispondiElimina(Caro Maz, quand'è che ci scrivi un qualche cosa, anche un pensierino di tre righe, un aforisma, una derivata o una tangente?)
Una scena molto simile (però documentaria, filmata in quei giorni) è in "The river" di Jean Renoir, che si svolge nel Bengala.
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