giovedì 22 novembre 2007

Tati privatizzato

Giuliano
E’ un mese che non ricevo la posta. Porto pazienza e spero che non ci sia in giro nulla d’importante; mi dispiace solo di non poter leggere il settimanale a cui sono abbonato. Allora vado in Posta (cinque minuti da casa mia, a piedi) per chiedere lumi. Mi metto in coda; quando arriva il mio turno l’impiegata mi invita a farmi avanti, visto che io titubo: dove c’è lei c’è scritto “Prodotti Bancoposta”, io pensavo di dovermi rivolgere a “Prodotti Postali”. Comunque, qui sono e qui chiedo, con cortesia perché qualcosa so e molto immagino.
« Non ricevo la posta da quindici giorni.»
La ragazza salta su come spinta da una molla, mi dice: “Vado a riferire al responsabile del servizio”, e scompare per cinque minuti. Poi torna e riferisce:
« I responsabili del servizio sono tutti fuori. Se aspetta un momento le dò il numero di telefono a cui chiamarli.»
Si alza e va a cercare il numero, presumibilmente di un cellulare, che trascrive.
« No, guardi – le dico, esterrefatto – del numero di telefono non saprei cosa farmene.»E me ne vado via, con passo deciso ma cercando di sembrare educato.
Sono passati altri quindici giorni, mi sono arrivati due numeri ormai vecchi del settimanale, quello nuovo non c’è ancora; ma niente buste, niente pacchi, e soprattutto niente postini.
E’ per questo che sono quindici giorni che penso a Jacques Tati. Penso al suo postino di “Giorno di festa” (1948), ma penso anche a “Playtime” (1967), a “Trafic” (1971) e a tutti gli altri suoi film. Il ricordo di Tati non va più via, ed è davvero bello stare in compagnia di un signore così educato e piacevole, ma io vorrei sapere cosa è successo alla mia posta. Negli ultimi quindici o vent’anni mi hanno detto, spiegato, detto, ridetto, ribattuto e rispiegato, e infine spiegato un’altra volta, perché io sono uno zuccone, che le Poste non funzionavano perché erano statali, e che se le avessero privatizzate tutto avrebbe cominciato a funzionare a meraviglia. Oggi le Poste sono private, e io un mese senza posta non c’ero mai stato: sono quarant’anni che sono abbonato a un settimanale, dal “Corriere dei Piccoli” del mio ’68 ad oggi, di certo ci avrei fatto caso. Invoco l’arrivo di Mary Poppins meglio che posso, ma lei non arriva: si vede che ha da fare altrove, ma forse le Poste non sono di sua competenza; al mio fianco continua a rimanere l’ottimo Monsieur Hulot, che maneggia la pipa spenta e muove appena un po’ l’ombrello indicando qualcosa di non troppo lontano.

E poi stamattina ho dovuto sbrigare una piccola pratica alla mutua, pardon: all’Azienda Sanitaria Locale, Regione Lombardia – mica un postaccio qualsiasi. Non sto a raccontarvela tutta, ma quando si affrontano queste prove sembra che il tempo non sia mai passato. Sono più di dieci anni che io da casa mia mando mail corpose, scannerizzando documenti e fotografie (ci ho inondato la casa di Solimano), eppure qui siamo ancora al Timbro. Per mettere un Timbro bisogna fare due, tre, quattro code; e cambiare due, tre, quattro uffici. Mi sono chiesto se non poteva fare tutto il primo ufficio, me lo sono chiesto oggi così come me lo chiedevo nel 1975 e dintorni (prima no, perché prima io ero troppo giovane e a sbrigare le pratiche ci andava mia mamma).

Quando affronto questi percorsi ad ostacoli, il primo pensiero è sempre per Tati, un autore che si impara ad apprezzare col tempo: più passano e gli anni e più lo si capisce e lo si ama. Il secondo pensiero è per i videogames, con i loro infiniti trucchi e trabocchetti: per arrivare in fondo a un Lara Croft ce ne vuole, ora che hai imparato tutto passa anche un mese. Il terzo pensiero, dedicato all’esimio Governatore della mia Avanzatissima Regione, Pilastro dell’Economia Europea e Mondiale, è che entrando nelle ASL mi sembra di essere uno di quei cowboys che incedono nelle città del Texas, tra ampie strade polverose che preludono al saloon e all’avventura. Sembra che ci sia davvero una città, ma poi - se si guarda bene -, dietro agli edifici non c’è niente. C’è solo la facciata.
Un paio d’anni fa la Regione mi ha spedito un elegante pezzettino di plastica con su un chip: la nuova tessera sanitaria, mi hanno spiegato. Ma ogni volta che la tiro fuori me la fanno mettere via: vogliono la tessera vecchia, quella di carta. E oggi credo d’aver capito: sulla tesserina di plastica il timbro non si può mettere.
E allora farò un’altra coda, ma la farò domani. Oggi, dopo “Giorno di festa”, mi guarderò “Playtime” e, se mi avanza il tempo, anche “Mio zio”: che è del 1953 ma sembra scritto oggi.

7 commenti:

  1. Post squisitissimo, Giuliano.
    Un caro saluto
    Laura

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  2. Cara Laura, sono reduce da tre quarti d'ora di coda ma adesso il mio timbro ce l'ho, e per di più su un cartoncino nuovo!
    Jacques Tati è vivo e osserva insieme a noi.

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  3. Un post eccezionale. L'ho riletto due volte e ancora ci trovo sfumature che all'inizio mi erano sfuggite!

    R.

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  4. Giuliano, ma quanto sarà costata, a noi contribuenti, quella bella ed inutile tesserina di plastica sfornata dalla Regione Lombardia? Ce l'ho nel portafogli da anni ma anch'io, come te, non l'ho mai utilizzata. Eppure sembrava che dovesse rivoluzionare il nostro mondo, se non l' intera Galassia...
    H.

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  5. Cara Habanera, il cartoncino è una cosa, la tesserina di plastica è un'altra: è qui il bello.

    Però potrei raccontare di quella volta che ero in farmacia (mi perdonino i non comaschi che si perdono il bello del dialetto), e una signora sugli ottanta aveva firmato sulla ricetta: per gli anziani c'è l'esenzione dal ticket, e qualcuno ha stabilito che per essere proprio sicuri (ma sicuri sicuri)che non ci siano truffe, l'anziano esente deve firmare in un rettangolino sulla ricetta del medico.

    La signora mette gli occhiali, firma, e poi sbotta a voce alta e chiara:
    - Ossignùr, hu firmà mi invece del mé marì!! E adèss, se fèmm??
    (La farmacista, paziente e silenziosa, la assiste nella bisogna)(la bisogna è che la signora firma con il nome del marito, ma in silenzio e di nascosto: come fanno tutti, se non bisognerebbe andare a casa, far firmare il marito, tornare a far la coda, eccetera).
    Comunque la si veda, si tratta di un'ammissione pubblica di falso in atto pubblico. Qualcuno dovrà pur provvedere, che peccato che non ci fossero pubblici ufficiali presenti.

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  6. Tutta la mia solidarietà alla signora di ottanta anni, quella dell'Ossignur! Finché ci sono persone così, un po' di fiducia si può avere. La scupolosità anche nelle piccole cose è segno di buona saluta della persona e del paese.
    Riguardo il tuo post, Giuliano, a parte le lodi a cui mi associo convinto, c'è un'altra cosa: è un intervento di vera politica come dovrebbe essere intesa, politica da polis, non da qui lo dico e qui lo nego o da claque ai talk show, o da giornalisti TV e non, che ti fanno la morale tutti i giorni e poi si scopre che quello che pensavamo sulle reciproche collusioni era (ed è) del tutto vero. Alludo all'inchiesta ed alle intercettazioni che stanno uscendo in questi giorni, ed ai nomi molto grossi dei giornalisti coinvolti.
    Tranquilli, resteranno al loro posto, ma la smettano almeno di farci la morale. Il punto è che ancora troppi guardano quelle trasmissioni palesemente truccate. Io ho smesso da tempo.

    saludos
    Solimano

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  7. Probabilmente la signora ha detto: “Oh, signùr! Hu firmàa cul mé nomm inveci de quel del mé omm! E adess, se femm?”, ma è passato tanto tempo, è difficile da ricostruire.

    Invece quello che non capisco è perché ogni volta che digito “se no” mi esce quel bruttissimo “se non”, che mai e poi mai avrei usato. (Del resto, sui refusi ho scritto un trattato in quattro puntate: me li merito, gli errori di battitura).

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