martedì 13 novembre 2007

Il grande capo

Directoren for det hele, di Lars Von Trier (2006) Con Jens Albinus, Peter Gantzler, Ridrik Thor Fridriksson, Iben Hjejle, Henrik Prip, Mia Lyhne, Casper Christensen Film Editing: Molly Marlene Stensgard (99 minuti) Rating IMDb: 6.8
Ottavio
Ho sempre considerato questo blog come un contenitore di opinioni su film in qualche modo rimasti impressi nella memoria. Dunque ho implicitamente escluso quelli di visione attuale, convinto come sono che il tempo unito alla riflessione ne darà una giusta, benché soggettiva, valutazione.
Ma come ogni regola, ahimè, anche qui introduco un’eccezione, e forse non sarà l’ultima.
Ho visto qualche settimana fa, nel ciclo del cineforum che sto frequentando, Il grande capo di Lars von Trier. E’ il primo film del regista danese che vedo, finora avevo soltanto letto le critiche ai suoi precedenti film: si associa a von Trier la “crudeltà sadica di rivelare il marcio nel nostro mondo” oltre
all’utilizzo di una evoluta tecnica cinematografica per la realizzazione di film “dogmaticamente postmoderni”. Il discorso andrebbe lontano e mi fermo qui.

Aggiungo però un’altra considerazione, prima di parlare de Il grande capo, che riguarda un altro film danese visto qualche anno fa, L’eredità di Per Fly: forse è solo una coincidenza, ma anche in questo film si rivela un grande pessimismo sulla natura dell’uomo e sulla perdita di umanità di fronte alla forza delle circostanze. La Danimarca è un piccolo paese d’Europa che non fa molta notizia e penso si conosca poco, a parte qualche turistico week end a Copenhagen; per decenni, come le altre nazioni nordiche, ha governato la socialdemocrazia assicurando un elevato benessere sociale. Da una diecina d’anni questo sistema è entrato in crisi (forse perché economicamente insostenibile?): di fronte ai fenomeni del nostro tempo (immigrazione, globalizzazione) il popolo danese si affida a coalizioni di centrodestra. Paure, incertezze sul futuro? Certo, se i film captano ed esprimono un’atmosfera realmente esistente vuol dire che si va verso una disgregazione sociale. Sarà meglio seguire con attenzione le vicende della piccola nazione! Ma forse per von Trier e Fly la Danimarca è tutto il nostro mondo.
Torniamo al film.
II proprietario di un'azienda di software danese si inventa l'esistenza di un "grande capo", utilissimo da essere gettato in pasto ai dipendenti come il responsabile delle decisioni meno popolari. Egli “soggiorna” costantemente in America e “comunica” con l’azienda via telefono o posta elettronica. II problema nasce quando il proprietario decide di vendere l’azienda e il compratore, un uomo d’affari islandese, vuole assolutamente negoziare con "il grande capo" in persona. Il proprietario è quindi obbligato ad assumere un attore teatrale per interpretarne la parte. Il quale attore, momentaneamente disoccupato, ha una personale fissazione per un ipotetico autore teatrale italiano dell’800, Gambini, ed una sua commedia di cui recita il “monologo dello spazzacamino in una città senza camini”. Il proprietario, un vero filibustiere che vuol vendere l’azienda sapendo che tutti i dipendenti saranno licenziati, informa col contagocce l’attore sulle passate attività del “grande capo”, esponendolo così a situazioni di grande imbarazzo, soprattutto quando il "grande capo" inizia a fare conoscenza e interagire con i dipendenti dell'azienda. Si assiste così, tra disagio e ilarità, a dialoghi tra realtà ed assurdo, che fanno grande, a mio parere, il film.
Le scene si svolgono tutte tra i muri dell’azienda, in uffici impersonali e squallide salette riunioni munite di flip chart (lavagne di carta) ben note all’autore per gli anni trascorsi in una multinazionale dell’informatica. Il montaggio del film è stato realizzato, secondo le dichiarazioni di von Trier, al computer (entro certi limiti, dico io). In effetti la sequenza di certe scene sembra occasionale.

Proprietario, attore e dipendenti avrebbero tutti bisogno di uno psicanalista. L’unica persona “normale” del film è il rude compratore islandese, sia pure tra gli insulti sanguinosi che rivolge ai danesi per i 400 anni di dominazione (anche questa è una vicenda un po’ lontana dalle nostre conoscenze storiche e quindi si assiste con una certa sorpresa alle intemperanze verbali tra danesi e islandesi. Ora gli islandesi si sono affrancati e anche per rivalsa acquistano immobili ed aziende in Danimarca, dice von Trier in un’intervista).
Al termine di questa commedia degli equivoci si riesce a organizzare la riunione con tutti i protagonisti, proprietario, attore, compratore e dipendenti, nella quale si deciderà definitivamente se l’azienda sarà o no ceduta. Dapprima il “grande capo”, che nel frattempo ha trovato un buon feeling con i dipendenti, sembra convincere il proprietario a rinunciare alla vendita salvando così i posti di lavoro, ma, di fronte all’esclamazione del compratore “Queste situazione è più assurda di una commedia di Gambini!” si rovescia la situazione: lo stolido compratore dimostra una grande cultura, Gambini è conosciuto anche in Islanda, e così via. Decide così, avendone la delega, di porre la firma sull’atto di vendita.
Il premio per l’attore sarà quello di poter finalmente recitare il suo monologo preferito, l’opera di Gambini “Lo spazzacamino nella città senza camini”, mentre i dipendenti dell’azienda, rassegnati, raccolgono le loro cose e se ne vanno.
Commedia degli equivoci, dicevo, e quindi si ride molto durante la proiezione. Alla fine ci si alza piacevolmente soddisfatti. Più tardi, senza l’effetto delle scene e delle azioni, si comincia a riconoscere che anche in questa circostanza il regista ha voluto mostrare che “c’è del marcio in Danimarca”.
C’è il profitto che calpesta qualsiasi relazione, l’ambiguità e la menzogna nei rapporti di lavoro, la mancanza di solidarietà tra dipendenti e di reattività contro gli abusi della proprietà, e infine il bisogno di autoaffermazione (nell’attore – grande capo) che annulla ogni concetto di giustizia. E anche l’incapacità degli esseri umani di riconoscere sinceramente e razionalmente di essere (ormai, nella nostra società occidentale) degli individualisti accettandone le (anche scomode) conseguenze.
Insomma, l’etica è una parola cancellata dal vocabolario.

4 commenti:

  1. Caro Ottavio, grazie per il racconto, e spero di leggerti più spesso (sull’argomento che vuoi). Avevo visto qualche foto sui giornali, di questo film, e mi erano sembrate divertenti; e adesso che tu me ne dai conferma proverò a cercarlo.
    Il fatto è che il mio rapporto con Lars von Trier è stato molto conflittuale: ero rimasto affascinato da “Europa”, uno dei suoi primissimi film, cupo e visionario ma bellissimo, e l’ho seguito fino a “Le onde del destino”, che non è certo un film da poco, ma a questo punto ho detto basta. Basta con Lars von Trier, perché “Le onde del destino” mi ha dato quella sensazione che si chiama “ne ho mangiata troppa”: troppo di tutto, troppa sperimentazione, troppa esagerazione nei sentimenti, troppo. Leggendoti ho pensato: forse gli è passata... si può tornare a frequentare il vecchio Lars.
    E’ un’opinione mia molto personale, s’intende: lo stesso effetto me lo aveva fatto Peter Greenaway, che dopo alcuni film sbalorditivi era finito anche lui nel “troppo”. Si finisce col cadere nel cattivo gusto (a volte pessimo, come “The baby of Macon” di Greenaway, il film che mi decise a mollare il regista gallese), e a fare la parodia di se stessi.
    Se le cose stanno così, forse con “Il grande capo” Lars von Trier è tornato fra noi...

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  2. Ottavio, bisognerà che io mi dia da fare per portare nel blog il testo integrale del "Monologo dello spazzacamino in una città senza camini", non solo, cercherò di trovare dati anagrafici, vita, amori, gossip di ogni tipo sul Grande Autore Gambini.
    Trovo l'idea di Lars von Trier del tutto geniale, e capisco qualcuno dei motivi che hanno portato tu, Ottavio a scriverne: l'esperienza di lavoro nella multinazionale in cui cose in un certo modo assimilabili succedevano.
    Giuliano, concordo riguardo Grenaway e Lars von Trier. A me manca di più il primo, che è l'originalità fatta persona, anche se von Trier, persino nelle Onde del destino, andava visto. Però veniva da dire come dici tu: "Bastaaa!!!". Speriamo, intanto andrò in caccia dei film storici di Greenaway.

    saludos
    Solimano

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  3. Per "fortuna" non sono un assiduo spettatore di film come Giuliano o Solimano: riesco ad inserire un onesto ciclo di cineforum all'anno tra gli altri numerosi passatempi e interessi. Così, confesso, "Il grande capo" è il primo film di von Trier che vedo, il che mi ha permesso di giudicarlo senza riserve mentali. Penso comunque che il film rappresenti una pausa (almeno) nel lavoro del regista, il quale ha dichiarato che ha voluto fare una commedia che divertisse e intrattenesse lui per primo. Anche se ha aggiunto che le commedie buone non sono mai innocue...
    Saluti. Ottavio

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  4. Io invece che non ne so come voi:) con le Onde del destino mi sono innamorata di lui. Totalmente. Sono andata a ritroso a guardarmi tutta la produzione precedente. Non mi stanca, mai sento che è troppo. Dogville: un capolavoro.
    A parer mio:)

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