Neppure una spia a Lisbona. E allora?
L'inquietante storia di un film che non c'è
Umberto Eco su L'espresso 11 agosto 1995
Ho visto a Parigi "Lisbonne story" di Wim Wenders. Era annunciato come "v.o.", quindi versione originale sottotitolata in francese. Il film, il regista, i principali protagonisti sono tedeschi, ma la versione originale è in inglese (almeno come lingua base, dato che vi si intrecciano spezzoni di altre lingue). Nulla di inconsueto, ma l'osservazione prelude ad altre, che il film ispira, sul destino del cinema. (A proposito: capisco i francesi che si accorano tanto per il predominio dell'inglese; vedendo sempre film non doppiati soffrono per la presenza invadente di quella lingua barbara. Noi invece, popolo di doppiatori, non ce ne accorgiamo neppure, ci pare naturale che anche i tedeschi a Lisbona parlino tra loro in italiano. Ma in tal modo perdiamo dei sintomi).
Wim Wenders è un grande regista, le immagini sono splendide, i colori mozzano il fiato, complice l'ambiente di una città di mare riscoperta proprio là dove è più disfatta. Wenders sa costruire una storia su nulla, è un maestro del non-accadimento, e durante la proiezione mi sono sorpreso a mormorare agli amici che erano con me: «E va bene, non potete pretendere che sia un regista d'altri tempi, tutto colpi di scena come Antonioni...».
Un tecnico del suono, un rumorista, ma eccelso, va a Lisbona chiamato da un suo amico regista: bruttarello, con un piede ingessato, sporco, sfigatissimo, con una macchina che perde i pezzi per strada, la marmitta che si stacca, l'acqua che bolle, la ruota di ricambio che rotola per un pendio e finisce in mare, il suo arrivo in Portogallo è come un percorso iniziatico, ma senza rivelazione finale. Anzi, l'amico regista non si trova, ha lasciato la casa, disordinata, inutilmente ampia e slabbratamente ombrosa, come un bivacco di strumenti tecnologici in un convento abbandonato, tra azulejos e intonaci cancerosi, e alcuni amici, giovani aiutanti, musicisti, che di lui sanno tutto ma né dicono o mostrano di voler dire dove sia.
Zoppettando per erte e scalinate, il nostro tecnico dei suoni va a registrare rumori, sussurri e canti di Lisboa antigua - e francamente questa sua insensata scorribanda vale l'ora e quaranta e il prezzo del biglietto - ma alla fine non sa bene che cosa fare, neppure se innamorarsi di una cantante di fado - e per carità, non succede nulla, solo qualche sorriso, qualche allusione che forse, chissà, vedremo, non si sa mai... L'uomo s'incaponisce in una serie di pedinamenti che preludono a chissà cosa, e finalmente trova il regista. Il quale ha capito che la macchina da presa ormai restituisce un mondo falso, ha deciso di filmare solo cose che non vede (voltando le spalle alla camera) e di imballare tutto, preparando un immenso archivio del cinema che non c'è.
Il tecnico dei suoni, con un artificio sonoro, convince il regista che non si deve fare così, quello cambia idea sin troppo in fretta, ed entrambi tornano alle origini, con una scatola a manovella da fratelli Lumière, filmando in bianco e nero Lisbona così come viene, e alla fine quei personaggi di Antonioni sembrano diventati personaggi di Nichetti.
Ahimè, il film finisce lì, perché il cinema vero che i due stanno per fare, non lo si vede. Si vedono i due che fanno il cinema liberato, in bianco e nero, senza sceneggiatura, riproponendo innumerevoli arrivi del treno in stazione; ma si vedono a colori, sulla base di una sceneggiatura ben costruita, e già doppiati in inglese per il mercato internazionale, anche se l'accento tedesco dei due fa molto "Sensucht". Se Wenders voleva pronunciare un atto di sfiducia, dire qualcosa sull'impossibilità di far cinema, lo ha fatto mentre mostra i due che disperatamente fanno cinema. A meno che Wenders ci stia promettendo non il cinema che non c'è ma quello che ci sarà. E però non c'è ancora. Ti verrebbe da dire "arivolemo li sordi", se non fosse che vorresti rivedere tutto ancora una volta, nel caso ti fosse sfuggita una traccia.
D'altra parte questo non-Lumière non è neppure un film contemporaneo, perché anche le regole del film a cui siamo ormai abituati, sono violate, ma non per provocazione, quasi per distrazione. Voglio dire che non si capisce perché il regista, per fare quel che deve fare, e cioè filmare cose che non vede, deve entrare in clandestinità come un brigatista rosso, e tutti a tenergli bordone, come se fosse in gioco la formula della fusione fredda (e Lisbona fosse quella di tutti i film su Lisbona, dove le spie si trovano a ogni incrocio, come i lavavetri extracomunitari dalle nostre parti).
Insomma, qual è il senso di un film, tutto sommato bellissimo, che non solo ti dice che non si può più fare cinema, ma ti delude quando te lo dice? Oppure, Wenders voleva proprio che questa fosse la nostra domanda.
“Lisbon Story” è un bel film, e giustamente Eco lo scrive a più riprese. Una delle cose da non perdere – ma ci ritornerò sopra – è il gruppo dei Madredeus con la cantante Teresa Salguero, che con questo film incantarono un po’ tutti (vi raccomando il cd “Ainda”, dolce e delicato, e un po’ malinconico come tutta la musica portoghese).
RispondiEliminaE il signore che armeggia con il microfono è Rüdiger Vogler, per il quale rimando al mio commento su “Alice nelle città”, sempre di Wenders.
Giuliano, quella dei "colpi di scena alla Antonioni" è bellissima, chissà se Eco era al corrente che Antonioni e Wenders avrebbero fatto un film insieme.
RispondiEliminaLa cantante si chiama Salgueiro e non Salguero, una volta tanto ti becco in castagna io, mentre generalmente sei tu il più preciso.
saludos
Solimano
...e pensa che ho anche i cd...
RispondiEliminaPerò posso aggiungere che "Madredeus" è il nome del convento di Lisbona (un monumento storico, se non ricordo male)presso il quale i musicisti si riunivano, e dal quale hanno preso il nome.