Giuliano
Siamo di fronte ad uno dei momenti più grandi, ma anche più oscuri e più lontani dalla nostra logica occidentale. La Bhaghavadgita, il “Canto del Beato”, è un vero e proprio libro di filosofia, più che di religione; parla dell’aldilà e del trascendente, ed è spesso oscuro e incomprensibile, e dotato di un enorme fascino. Confesso di aver provato a leggerla, e di non averne ricavato molto. Immagino cosa deve aver provato Jean Claude Carrière, dovendola ridurre a un testo per il teatro, e anche piuttosto breve. E’ soprattutto per queste due ragioni, oltre per il fatto che questo è un blog sul cinema e non di questioni filosofiche o religiose, che mi limito a trascrivere qui la Bhaghavadgita come è stata riassunta nel film, cercando di rendere il senso del testo e delle immagini meglio che posso.
Sta per iniziare la grande battaglia finale, la battaglia di Kurukshetra (è una località precisa, che porta ancora questo nome) nella quale si trovano di fronte gli appartenenti alla stessa famiglia. da una parte i Pandavas, guidati da Arjuna, al cui fianco c’è il dio Krishna; dall’altra i Kauravas, loro cugini, guidati da Bhishma e da Drona, guerriero imbattibile e maestro d’armi. Tra le fila dei Kauravas, c’è anche Karna. E tutto è pronto per cominciare, ma ecco che Arjuna, proprio mentre sta per soffiare nel corno che darà inizio alla battaglia, si ferma, passa una mano sul volto, guarda smarrito Krishna che è alla guida del suo carro, e depone le armi.
Arjuna: Krishna, le mie gambe si piegano. La mia bocca è secca, il mio corpo trema. L’arco mi sfugge dalle mani... Bhishma, il re mio zio, i miei cugini, i miei nipoti, e Drona, il mio maestro, sono tutti là... Io non posso portare la morte alla mia famiglia. (scende dal carro) Ho preso la mia decisione, non mi difenderò. Aspetterò qui la morte.
Krishna: Cos’è questa vergognosa e folle debolezza? Alzati e combatti!
Arjuna: L’angoscia mi assale. Non riesco a vedere dove sia il dovere. Insegnami...
(pausa)
Dhritarashtra: Cosa fa Krishna?
Vyasa: Parla con Arjuna.
Dhritarashtra: Cosa gli dice?
Vyasa: Sta dicendo ad Arjuna che la vittoria e la sconfitta sono la stessa cosa. Lo spinge ad agire, e a non riflettere sui frutti delle sue azioni. Gli dice: “ Cerca il distacco, combatti senza il desiderio di farlo.”
(riprende su Arjuna e Krishna)
Arjuna: Tu dici: “ Dimentica il desiderio, cerca il distacco”; e tuttavia mi spingi alla battaglia, al massacro? Le tue parole sono ambigue, io sono confuso.
(pausa)
Vyasa: Krishna gli dice: “Non ritirarti nella solitudine. La rinuncia non è abbastanza. Devi agire, ma non devi farti dominare dall’azione.
(riprende su Arjuna e Krishna)
Krishna: Nel cuore dell’azione, devi rimanere libero da ogni legame.
Arjuna: Come posso mettere in pratica ciò che mi domandi? La mente è instabile, capricciosa, è evasiva, febbrile, tumultuosa, tenace. Sarebbe più facile domare il vento.
Krishna: Devi imparare a guardare nello stesso modo, con l’identico sguardo, una montagna di terra e una montagna d’oro, una mucca e un uomo saggio, un cane e un uomo. C’è un’altra intelligenza oltre la nostra mente.
Arjuna: Le passioni ci trascinano lontano, oscurano e rendono ottusi i nostri sensi. Come posso trovare quest’intelligenza? Con quale volontà?
(pausa)
Vyasa: per rispondere a questa domanda, Krishna condusse Arjuna attraverso l’intricata foresta dell’illusione. Cominciò a insegnargli l’antica sapienza yoga, e il misterioso sentiero dell’azione. Gli parlò per un tempo lungo, molto lungo, in mezzo ai due eserciti erano pronti a distruggersi.
(riprende su Arjuna e Krishna)
Arjuna: L’umanità è nata nell’illusione. Come può un uomo raggiungere la verità, se è nato nell’illusione?
(pausa)
Vyasa: Lentamente, Krishna condusse Arjuna attraverso le fibre dello spirito. Gli mostrò i più intimi movimenti del suo essere, e il suo vero campo di battaglia, dove non c’è bisogno né di guerrieri né di armi, dove ogni uomo deve combattere da solo: è la sapienza più segreta. Gli mostrò l’intera verità. Gli insegnò come si dispiega il mondo.
(riprende su Arjuna e Krishna)
Arjuna: Le mie illusioni sono svanite ad una ad una. Ora, se posso guardare dentro di essa, mostrami la tua forma universale...
(pausa)
Ti vedo. In un unico punto io vedo l’intero mondo. Tutti i guerrieri si gettano nella tua bocca, e tu li mastichi fra i tuoi denti. Essi vogliono essere distrutti, e tu li distruggi. Attraverso il tuo corpo io vedo le stelle. Vedo la vita e la morte, vedo il silenzio. Dimmi chi sei. Sono scosso nel mio intimo più profondo, ho paura.
Krishna: Io sono tutto ciò che tu pensi, tutto ciò che tu dici. Ogni cosa è appesa a me, come le perle su di un filo. Sono l’essenza della terra, sono il calore del fuoco. Sono ciò che appare, e ciò che scompare. Io sono la beffa dell’imbroglione. Io sono il fulgore di tutto ciò che riluce, io sono il tempo che invecchia. Tutti gli esseri precipitano nella notte, e tutti gli esseri sono riportati alla luce. Io ho già sconfitto tutti questi guerrieri. C’è chi pensa di poter uccidere, c’è chi pensa che verrà ucciso, entrambi sbagliano. Nessuna arma può prendere la vita che tu porti, nessun fuoco può bruciarla, non c’è acqua che possa annegarla, non c’è vento che possa asciugarla. Non aver paura, e alzati, perché io ti amo. Ora puoi dominare il tuo misterioso e incomprensibile spirito, ora puoi vedere il suo lato oscuro. Agisci come devi agire. Anch’io, io non sto mai senza agire. Alzati, e combatti.
Arjuna risale sul carro, le sue paure sono svanite. Soffia nella conchiglia, e i due eserciti si scagliano uno contro l’altro.
Vyasa è il narratore del poema, l’equivalente indiano di Omero, interpretato dall’attore Robert Langdon Lloyd; Dhritarashtra è il re cieco, padre dei Kauravas, interpretato dal polacco Ryszard Cieslak: a lui Vyasa racconta le sorti della battaglia.
Krishna è l’inglese Bruce Myers, e Arjuna è Vittorio Mezzogiorno.
(Ma poi, alla fine di tutto, dopo molto tempo, dopo la battaglia, ormai prossimo egli stesso alla morte, Krishna dirà che “Arjuna ha dimenticato tutto...”.)
Eggià! Qui sta il punto, non se ne esce. Ho un librone colla copertina azzurra dell'Astrolabio, con solo la Bhaghavadgita e dieci righe almeno di commento ad ogni verso, con traduzioni differenti che dicono cose differentissime, perché le magnifiche parolone sanscrite avverti che hanno un significato preciso, per noi però indicibile perché forse impensabile.
RispondiEliminaOgni tanto mi ci immergo, quando rischio di affogarci me ne esco, contento però di esserci stato.
I libri Astrolabio con la copertina azzurra sono per matti totali, quelli con la copertina arancione per matti al 50%, che però sono più noiosi.
Quello che ti scompiglia è che senti che quelle parole hanno ragione, solo che è una ragione che non capisci, a cui tutto dentro di te si ribella. Ma, oltretutto, non ci sono le solite fumisterie olistiche di tanti moderni guru di professione o di imbalorditi tuttologi, la Bhaghavadgita è concretissima, come è concreto l'hata yoga, che in ogni asana c'è dentro il movimento dell'animale che lo insegnò, ai maestri di yoga, soltanto facendolo. Ci si prova in tutti i modi, a raccontarsela, ci ho provato col Fata volentes ducunt nolentes trahunt, ma non funziona, perché volere e non volere è come vittoria e sconfitta, una polarità falsa. Per cui, scelgo di cercare di ricordare il più spesso possibile che per chi scrisse quelle parole l'io individuale era maya, una illusione, e che tat twam asi, quello sei tu. Anche qui c'è la trappola, perché uno dice ah l'amore cristiano! Nossignore, non ha niente a che fare con l'amore (cosiddetto) cristiano, perché per loro quello sei veramente tu. La Chiesa ci ha provato con il Corpo Mistico, con la Trinità, con la Pentecoste, ma è dura. Solo l'esperienza dei grandi mistici come Teresa d'Avila e Giovanni della Croce poteva comprendere, perchè era esperienza, non pensiero. Ma quello che senza saperne nulla è vicinissimo è Meister Eckart, che più lo leggi meno lo capisci, però sei contento di averlo letto.
Giuliano, lo so che sembra uno spot, ma sono ben contento che tu abbia scelto di mettere il Mahabharata in questo modo, e non siamo ancora alla fine: per i visitatori è una promessa, non una minaccia.
saludos companero
Solimano
Al di là dell’indubbia bellezza e profondità del testo, la Bhaghavadgita può anche essere pericolosa, perché può dar luogo ad interpretazioni aberranti. Peter Brook mostra di essere ben conscio del pericolo, e affronta la Bhaghavadgita quasi soltanto dal suo lato poetico; non nasconde nulla, ma sorvola sui pericoli che essa nasconde.
RispondiEliminaTutti pericoli che invece affrontano apertamente sia Burgess che Kubrick in “Arancia meccanica”: e sappiamo benissimo che fine hanno fatto, in certe teste (purtroppo non poche) i fini ragionamenti sul libero arbitrio contenuti sia nel libro che nel film... Nel mio post su Arancia Meccanica, un lettore mi ha posto una critica più che legittima (la si può leggere tra i commenti) : il mio ragionamento era sul fatto se certi testi, e certi film, debbano essere fatti conoscere proprio a tutti, o se debbano essere preceduti da un minimo di istruzione in proposito. Secondo me, ma anche Kubrick e Burgess hanno rilasciato diverse dichiarazioni in proposito, quando si affrontano certi argomenti bisogna stare attenti a chi si ha davanti. E’ anche il ragionamento che c’è alla base dei “Karamazov” e dei “Demoni” di Dostoevskij, o della condanna recente di Adriano Sofri: un tema molto complicato, che ricorre spesso. Ma qui mi fermo, perché è un tema troppo complicato per me, e anche perché si esce dall’argomento cinema.
Questo è il riassunto della Bhaghavadgita fatto dallo scrittore indiano R.K.Narayan:
RispondiElimina(...) Pilotato da Krsna, il carro di Arjuna sostava in un punto strategico lungo la linea del fronte, dal quale Arjuna poteva controllare in pieno i movimenti avversari. Riconobbe ogni singolo individuo, e all'improvviso il cuore gli mancò. Là i suoi consanguinei - suo nonno, suo zio, il suo guru, i suoi cugini - erano schierati, in attesa di essere feriti o uccisi. Di colpo si sentì debole e irresoluto. « Non me la sento di dar corso a questa guerra », confessò a Krsna. « Sento venir meno la mia stretta intorno all'impugnatura del Gandiva. La mia mente vacilla. Come posso trafiggere la carne della mia carne? Io non voglio il regno; io non voglio nulla. Lasciami solo. Lascia che me ne vada. » Il Gandiva gli cadde di mano, si accasciò sul fondo del carro e prese a singhiozzare. « Come posso scoccare le mie frecce contro Bhishma e Drona, che dovrei fare oggetto della mia adorazione? Dubito che un regno meriti d'essere conquistato a costo di tanto sangue sparso. A che pro una simile conquista? » Così piangeva Arjuna.
Quando questi, esaurito il suo sfogo, si chiuse nel silenzio, Krsna pacatamente gli rivolse la parola. « Tu ti addolori meditando sulla sorte di persone che non meritano considerazione alcuna. »
Poi in tono garbato cominciò a esporre in termini profondamente filosofici i pregi di una condotta serenamente distaccata. Prese in esame le categorie e le sottili peculiarità della mente umana, donde scaturiscono azioni e reazioni di molteplice natura. Mise a fuoco la vera natura della personalità, la sua portata e statura in correlazione con la società, con il mondo e con Dio, e così pure quella della vita e della morte. Illustrò vari tipi di yoga e spiegò l'esigenza di comprendere l'immortalità dell'anima racchiusa nel corpo umano corruttibile. Krsna sottolineò con ribadita enfasi l'importanza di ottemperare al nostro dovere con il dovuto distacco, in spirito di serena dedizione. Arjuna ascoltò con riverenza, interrompendo di tanto in tanto per chiarire un dubbio o sollecitare una delucidazione. Krsna rispose a tutte le sue domande con grande benevolenza, e alla fine gli concesse il dono di una completa visione della sua grande, autentica statura. All'improvviso Krsna, che egli aveva prescelto a suo compagno, si trasfigurò assumendo le sembianze della Divinità, pluridimensionale e onnipresente.
Il tempo, le creature, gli amici e i nemici convergevano e si fondevano in quell'essere straordinario, la cui statura spaziava fra la terra e il cielo, e si estendeva da un orizzonte all'altro. Nascita e morte, distruzione e protezione degli esseri: ogni attività sembrava far parte di quella creatura. Niente era estraneo alla sostanza di quell'essere. Creazione, distruzione, attività e inattività: tutto costituiva una parte, una particella di una siffatta, grandiosa entità, la cui visione colmava Arjuna di terrore e di estasi. « Ora sì, ora capisco! » esclamò.
«Io sono la morte, io sono la distruzione », disse il dio. « Gli uomini che vedi schierati al tuo cospetto sono già trafitti, condannati dal loro karman. Tu non sarai che lo strumento della loro distruzione. »
« O Grande Dio », proruppe Arjuna, « la mia debolezza è superata. Nella mia mente non sopravvive alcun dubbio. » E tornò a impugnare l'arco, disponendosi ad affrontare la battaglia. Allora Krsna riassunse le sue sembianze mortali.
Quando le truppe dei Pàndava videro che Arjuna raccoglieva l'arco, provarono un moto generale di sollievo. Ma in quel momento, allorché la battaglia stava ormai per iniziare, con grande sorpresa di tutti Yudhisthira fu visto gettare l'armatura e la cotta di ferro, e raggiungere lo schieramento opposto. Sulle prime i Kaurava pensarono che, colto da panico improvviso, volesse proporre al nemico di far pace. Ma Yudhisthira si diresse subito verso il suo maestro, Drona. Gli s'inchinò dinanzi, toccò il piede di Bhishma, suo prozio, e quello d'altri anziani, dopo di che fece ritorno alla sua postazione. Tornò a indossare l'armatura e diede il segnale d'attacco.
(dal Mahabharata nel riassunto di R.K.Narayan, ed. Guanda)
Seguo la serie di Giuliano (Krishna mi perdoni) con passione.
RispondiEliminaDell'induismo, di quello del Mahabharata in particolare, mi sfugge tutto. Non ho, come giustamente dice Solimano, l'esperienza, e non si tratta di cose che si posseggano per via di conoscenza, più o meno filologica.
Le storie indù, come quelle buddiste, mi sono però utili (oltre che fascinose). Non tanto per costruirci sopra, ma per immaginare diversi modi di essere e pensare; per rivalutare aspetti della vita e delle idee che, per formazione e indole, in genere considero interstizi dell'edificio maggiore.
Le parole di Krishna, il cui significato profondo (e non so neanche se si possa parlarne in questo modo) mi sfugge totalmente, suggeriscono -per dirne una- uno sguardo diverso sul rapporto tra teoria e prassi, e tra azione e passione. Ciò di cui c'è un gran bisogno adesso, nel momento in cui tutto (o nulla?) in Italia va rivoltandosi e le guide valide sino a ieri hanno poco da dirci.
E già che ci sono, butto la cosa in politica.
All'idea del partito-principe -sintesi di azione e pensiero, passione e ragionamento, volontà e indagine- occorre trovare un'alternativa. Rimuovendo, tanto per iniziare, l'idea del "principe" (cioè, rimuovendo una concezione organicistica del partito, le cui parti agiscono come diverse funzioni dello stesso corpo individuale). Ecco, proprio il sacrificio dell'identità e dell'individualità del partito è un passaggio delicato, poichè non sappiamo bene dove deve portarci. Tutte le fonti di suggestione sono quindi buone. Anche la Bhaghavadgita: con l'azione che ha significato in sè (ma non "per sè" come nell'interpretazione fascistoide), con la relativizzazione degli schieramenti, con la critica alla nozione stessa di vittoria e di sconfitta.
Avsalud,
Mazapegul