Giuliano
La giovane Kunti viene presa in simpatia da un santo asceta, che le fa un dono impegnativo e anche pericoloso: è un mantra, una frase che può evocare un dio. La ragazza, per curiosità, ci prova: ed evoca il dio Sole, che appare. Kunti cerca di scusarsi, ma il Sole le spiega, con gentilezza, che questo non è un gioco e che non si può evocare un dio così alla leggera. Il dio si intrattiene piacevolmente con la ragazza, e da questo intrattenimento nascerà un bambino, figlio del Sole. Kunti non sa cosa fare, è quasi una bambina. E’ riuscita a nascondere la cosa, ma adesso il piccolino c’è e non si potrà continuare a fare come se non ci fosse: così lo mette in un canestro e lo affida alle acque del fiume.
Sembrerebbe una storia inventata, da tanto che è simile a quella di Mosè. Eppure è nel Mahabharata da tempo immemorabile; così come nell’epopea babilonese di Gilgamesh, anch’essa precedente alla Bibbia, c’è il racconto del diluvio universale. Ma questo è un argomento troppo serio, e io non sono in grado di trattarlo; mi limito a sottolineare la similitudine, e vado avanti con la storia così come viene raccontata nel film di Peter Brook. Anche perché, a questo punto, le somiglianze con la storia di Mosè finiscono subito. Tanto il racconto del Diluvio, a Babilonia, è simile a quello della Bibbia, quanto questo racconto differisce dalla storia di Mosè nel suo proseguimento.
Il bambino, ovviamente bellissimo, si chiama Karna. Viene raccolto lungo il fiume dalla famiglia di un carrettiere, e in quella famiglia cresce senza sapere nulla delle proprie origini. Riceve però un’educazione marziale molto accurata. E, quando diviene adulto, arriva alla reggia di Dhritarashtra: dove si riconosce subito il suo valore, e dove si evidenzia subito la sua rivalità con l’infallibile arciere Arjuna, uno dei cinque fratelli Pandavas. E sarà proprio Arjuna, sfidato da Karna, a rinfacciare al nuovo venuto le sue origini. “Di chi sei figlio?”, chiede a Karna; e Karna non sa rispondere, perché lo ignora. E’ il figlio del carrettiere, ecco tutto quello che di lui si conosce.
Respinto dai Pandavas, Karna trova accoglienza nell’altro ramo della famiglia, quello dei Kauravas. Duryodhana, il maggiore dei figli del re, lo accoglie come un fratello e fa in modo che abbia da subito un titolo nobiliare. Ma la ferita tra Karna e Arjuna, entrambi arcieri infallibili e valorosi, è ormai insanabile.
I due in realtà sono fratelli, entrambi figli di Kunti. E quindi sono fratelli di Karna tutti i Pandavas, che sono e anch’essi di ascendenza divina (Arjuna è figlio di Indra e di Kunti: ma questa è un’altra storia, troppo lunga per essere raccontata oggi). Kunti è infatti riuscita a tenere nascosta la sua prima maternità.
La rivalità continuerà fino alla grande battaglia di Kurukshetra, dove Arjuna e Karna si troveranno di fronte in eserciti contrapposti. Nei 12 anni dell’esilio dei Pandavas, prima della battaglia, Arjuna ottiene da Shiva un’arma potente e letale, che potrà evocare in caso estremo. Quando Karna lo viene a sapere, si reca da un asceta divino che conosce lo stesso segreto, e si sottomette a lui diventandone il servitore. L’asceta – che in realtà è Parasurama, sesta incarnazione di Vishnu - non si fida mai completamente del misterioso giovane che è giunto al suo servizio, ma si compiace della sua devozione e gli fa finalmente dono della terribile arma. Lo yogi sospetta che il giovane sia uno kshatriya (cosa che realmente Karna è), cioè, nel sistema indiano delle caste, uno dei gradi più alti: al vertice stanno infatti ancora oggi bramini (sacerdoti) e kshatriya (guerrieri), poi gli altri, e infine all’ultimo grado gli intoccabili. L’asceta disprezza profondamente la casta guerriera, e non avrebbe mai accettato di avere per allievo uno di loro; Karna lo sa e per questo ha taciuto la sua appartenenza agli kshatriya.
“Ecco, - dice l’asceta scrivendo qualcosa su un pezzo di corteccia – questa è il mantra da recitare quando sarà il momento. Ma devi impararlo a memoria: già non esiste più.” E infatti dal pezzo di corteccia la scritta svanisce non appena Karna ha finito di leggerla.
Adesso lo yogi è stanco, e vuole dormire. Karna, umilmente, gli fa appoggiare la testa sulla propria gamba. Ma sbuca un serpente, che morde Karna in profondità e con morso doloroso; Karna non si muove, stringe i denti per non svegliare il suo maestro. Quando lo yogi si sveglia, vede il sangue, vede il dolore sul volto del giovane, ed esplode in un’ira terribile: « Solo uno kshatriya poteva essere così stupido da non reagire al morso del serpente! Tu sei uno kshatriya, e quindi mi hai mentito.» Scaccia subito Karna, e gli lancia una maledizione: nel momento in cui avrà bisogno dell’arma terribile si dimenticherà del mantra che ha appena imparato.
E così succede. Nella grande battaglia finale, si incrociano i due carri: quello di Arjuna, con Krishna come guida, e quello di Karna. Krishna fa impantanare una ruota del carro di Karna, e così Karna è costretto a scendere e a cercare di rimuoverla. In quel preciso momento, una nube oscura il Sole; Karna si sente perduto e cerca di salvarsi recitando il terribile mantra, ma lo ha dimenticato.
Un furente Krishna spinge Arjuna, che esita, a scoccare la freccia; e la freccia colpisce il segno.
Solo dopo la morte di Karna, Kunti spiegherà ad Arjuna che erano fratelli; ma Karna già sapeva, eppure aveva continuato lo stesso a combattere. I Pandavas lo avevano respinto e umiliato, e Karna non poteva dimenticarlo.
Karna riceve funerali solenni, tutti i Pandavas, suoi fratelli, vi partecipano commossi. “Una morte degna del figlio di un carrettiere”, è il tragico e ironico commento di Krishna, che pure lo aveva sorretto al momento della sua morte.
Nel film di Peter Brook, Karna è interpretato in modo perfetto dal nero americano Jeffrey Kissoon. Sua madre Kunti è l’altrettanto perfetta Myriam Goldschmidt, anch’essa nera ma berlinese; Krishna è l’inglese Bruce Myers, Arjuna (da pronunciarsi con la j alla francese) è Vittorio Mezzogiorno. Una menzione particolare per Sotigui Kouyaté, nato a Bamako nel Mali nel 1936: già interprete di Bhishma, in questo episodio impersona anche lo yogi Parashurama. E’ un attore che avrei voluto vedere più spesso, ma forse Hollywood non si merita un interprete così grande.
Peter Brook parlando del Mahabharata dice che nel pensiero indiano sono fusi insieme con estrema naturalezza i concetti di libero arbitrio e e di destino, predestinazione e fato. Gli indiani ci portano davanti un concetto del tutto nuovo, superando questi nostri concetti: dobbiamo cercare noi stessi, il nostro vero io, oppure rifiutarlo. In questo stanno il libero arbitrio e il fato, insieme.
RispondiElimina( l’intervista intera è sul dvd, dove il concetto è spiegato molto meglio di questo mio riassuntino).
A differenze degli altri protagonisti, Karna non sa chi è, non conosce il proprio destino: è una chiave di lettura che ce lo rende molto vicino.