Seom, di Kim Ki-duk (2000) Con Jung Suh, Yoosuk Kim, Sung-hee Park, Jae-hyeon Jo, Hang-Seon Jang Musica: Sang-yun Jeon Fotografia: Sei-shik Hwang Rating IMDb: 7.0
Giuliano
E’ un film terribile, girato da un grandissimo regista. Mai viste così tante atrocità in un film solo; forse solo in Oshima. Però questo è grandissimo cinema, uno shock totale sul quale dovrò documentarmi. Per fortuna, c’è internet: su www.cinemacoreano.it trovo ben sei pagine , che si aprono con una citazione da Artaud; e già questo spiega tante cose. Riassumo: 1) Kim Ki-duk arriva al cinema a trent’anni compiuti, a Parigi, quasi per caso: prima, cinque anni nell’esercito coreano e un’infanzia violenta alle spalle. 2) E’ lui che fa le bellissime sculture con il filo metallico che abbiamo visto nel film. 3) “La crudeltà è il suo marchio di fabbrica”: appunto Antonin Artaud, grande e folle, e il suo“ teatro della crudeltà”. 4) “i film non possono cambiare la realtà, ma semmai lo stato di coscienza di un individuo” (Kim Ki-duk).
Il film è girato su acque fermissime, immobili, forse di un lago. Ci sono delle zattere, realizzate con bidoni di plastica legati fra di loro, con sopra una casetta sulla quale, a pagamento, si può andare a pescare, e anche portarvi una donna: sempre a pagamento, s’intende. Su questo universo maschile fa la guardia una ragazza, che abita sul molo e che porta i paganti sulle casette galleggianti. Da questa situazione evolve tutta la storia.
La ragazza, che a tratti ricorda Lea Massari, si chiama Jung Suh. La valenza simbolica è potentissima ed evidente: una traghettatrice, sulle acque. Un Caronte femmina, forse. Una ninfa, naiade, sirena? Uno spettro coreano? Sicuramente, qualcosa di forte e di distruttivo.
Il ragazzo è Yoosuk Kim (anche i nomi cinesi e coreani comportano grossi problemi di trascrizione: se non ho capito male, si inizia sempre dal cognome: Kim è l’equivalente del nostro cognome, e Ki-duk è il nome personale. Ma molto spesso, sono “raddrizzati” per non leggere a rovescia: su imdb riportano i nomi all’uso nostro, e poi non ci si capisce più niente).
E’ difficile parlare di questo film. Siamo di fronte ad un mondo completamente diverso da quello a cui siamo abituati a pensare, soprattutto dal punto di vista morale. Alcune scene sono così forti che mi sento di sconsigliarne la visione a chi soffre troppo il sangue e la violenza: perché qui non si scherza affatto. Eppure, il fascino rimane, ed è fortissimo. Nessun altro ha la potenza e l’originalità di Kim Ki-duk, nel cinema di oggi, e anche dal punto di vista tecnico, della bellezza delle immagini e del lavoro sugli attori, c’è di che rimanere sbalorditi.
Se ne potrebbe concludere, e non sarebbe la prima volta, che le scuole di cinema sono la rovina del cinema, e le scuole di scrittura sono una grande pialla, che livella tutto a un piattume uniforme. E’ una conclusione un po’ forte, e me ne scuso: ma è una cosa che penso da tempo, e oggi – complice Kim Kiduk – volevo proprio scriverla e farla leggere a qualcuno.
Giuliano
E’ un film terribile, girato da un grandissimo regista. Mai viste così tante atrocità in un film solo; forse solo in Oshima. Però questo è grandissimo cinema, uno shock totale sul quale dovrò documentarmi. Per fortuna, c’è internet: su www.cinemacoreano.it trovo ben sei pagine , che si aprono con una citazione da Artaud; e già questo spiega tante cose. Riassumo: 1) Kim Ki-duk arriva al cinema a trent’anni compiuti, a Parigi, quasi per caso: prima, cinque anni nell’esercito coreano e un’infanzia violenta alle spalle. 2) E’ lui che fa le bellissime sculture con il filo metallico che abbiamo visto nel film. 3) “La crudeltà è il suo marchio di fabbrica”: appunto Antonin Artaud, grande e folle, e il suo“ teatro della crudeltà”. 4) “i film non possono cambiare la realtà, ma semmai lo stato di coscienza di un individuo” (Kim Ki-duk).
Il film è girato su acque fermissime, immobili, forse di un lago. Ci sono delle zattere, realizzate con bidoni di plastica legati fra di loro, con sopra una casetta sulla quale, a pagamento, si può andare a pescare, e anche portarvi una donna: sempre a pagamento, s’intende. Su questo universo maschile fa la guardia una ragazza, che abita sul molo e che porta i paganti sulle casette galleggianti. Da questa situazione evolve tutta la storia.
La ragazza, che a tratti ricorda Lea Massari, si chiama Jung Suh. La valenza simbolica è potentissima ed evidente: una traghettatrice, sulle acque. Un Caronte femmina, forse. Una ninfa, naiade, sirena? Uno spettro coreano? Sicuramente, qualcosa di forte e di distruttivo.
Il ragazzo è Yoosuk Kim (anche i nomi cinesi e coreani comportano grossi problemi di trascrizione: se non ho capito male, si inizia sempre dal cognome: Kim è l’equivalente del nostro cognome, e Ki-duk è il nome personale. Ma molto spesso, sono “raddrizzati” per non leggere a rovescia: su imdb riportano i nomi all’uso nostro, e poi non ci si capisce più niente).
E’ difficile parlare di questo film. Siamo di fronte ad un mondo completamente diverso da quello a cui siamo abituati a pensare, soprattutto dal punto di vista morale. Alcune scene sono così forti che mi sento di sconsigliarne la visione a chi soffre troppo il sangue e la violenza: perché qui non si scherza affatto. Eppure, il fascino rimane, ed è fortissimo. Nessun altro ha la potenza e l’originalità di Kim Ki-duk, nel cinema di oggi, e anche dal punto di vista tecnico, della bellezza delle immagini e del lavoro sugli attori, c’è di che rimanere sbalorditi.
Se ne potrebbe concludere, e non sarebbe la prima volta, che le scuole di cinema sono la rovina del cinema, e le scuole di scrittura sono una grande pialla, che livella tutto a un piattume uniforme. E’ una conclusione un po’ forte, e me ne scuso: ma è una cosa che penso da tempo, e oggi – complice Kim Kiduk – volevo proprio scriverla e farla leggere a qualcuno.
Buono a sapersi. Avrò molta cura di tenermi alla larga dall'Isola. Grazie per l'avvertimento.
RispondiEliminaTi capisco bene, però è un peccato. Questo è un film di un regista di enorme talento. (ma anch'io ho girato gli occhi davanti a certe scene).
RispondiEliminaGiuliano, prendo spunto da questo film (che non conosco se non per quello che ne hai scritto tu) per parlare del problema più generale di quanto serva in realtà rendere esplicita la violenza nelle immagini di un film. Ognuno ha la sua personale soglia di tolleranza, questo è innegabile, però io mi chiedo una cosa banale: se mi si propone un film le cui immagini (e suppongo anche i suoni) io non riesco a tollerare e dunque chiudo gli occhi mi tappo le orecchie o addirittura --- se mi è possibile --- interrompo la visione, a che mi serve questo film e cosa servo io al regista? Non so.
RispondiEliminaCara Gabriella, non è mica un problema da poco! Se ne parla da sempre. Anche il Caravaggio è molto pesante, e lo è spesso. Ma, appunto, è un discorso complesso... ci si può tornare sopra con più calma, anche perché è stato affrontato molte volte (ma la risposta non c'è, ognuno ha la sua). (e si toccano subito questioni importanti, a partire dalla nostra religione...)
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