Una lucertola con la pelle di donna, di Lucio Fulci (1971) Sceneggiatura di Lucio Fulci, Roberto Gianviti, José Luis Martinez Mollà, André Tranché Con Florinda Bolkan, Stanley Baker, Jean Sorel, Silvia Monti, Alberto de Mendoza, Penny Brown, Eli Galleani, Leo Genn, Anita Strindberg (103 minuti) Musica: Ennio Morricone Fotografia: Luigi Kuveiller Rating IMDb: 7.1
Giuliano
Nei cinema dei paesi piccoli, come il mio, raramente arrivavano i grandi capolavori, o i grandi successi. Per avere le pellicole, che venivano stampate una per una a partire dal negativo (come le fotografie), i gestori del cinema dovevano pagare il noleggio; e il noleggio dei grandi successi costava caro. Non è come oggi, insomma, che il dvd di “Via col vento” o del “Dottor Zivago” costano dieci euro proprio come un filmetto qualsiasi.
Ecco un piccolo elenco dei titoli che arrivavano nel cinema del mio paese, a inizio anni ’70: Franchi e Ingrassia; Lando Buzzanca; la Wertmuller; film con cantanti famosi (Gianni Morandi in testa, ma anche il Celentano di “Serafino”); film di vampiri ma solo quelli a basso costo (“Yorga il vampiro”: chi se lo ricorda ancora?); film di kungfu (che poi i quattordicenni si gasavano, e all’uscita dal cinema prendevano a calci le macchine e le saracinesche), eccetera. Se andava bene, ad essere proprio fortunati, c’era Bud Spencer: i primissimi film, quando ancora non faceva coppia con Terence Hill ma già tirava sganassoni in ambito western.
E poi c’erano Lucio Fulci e Dario Argento. I titoli, memorabili come proverbi e scioglilingua: “Sette scialli di seta gialla”, “Una lucertola dalla pelle di donna”; “Quattro mosche di velluto grigio”; “Non si sevizia un paperino”, e, infine, il clamoroso successo di “Profondo rosso” (il gestore del cinema l’avrà pagato caro, ma sapendo che la gente sarebbe accorsa). Molti di questi film io non li ho visti, perché erano vietati ai minori di 14 anni, e quando sono usciti io a quell’età non ci arrivavo ancora. Per questo, quando a notte fonda ho visto che davano in tv “Una lucertola con la pelle di donna” di Lucio Fulci, ho puntato il registratore e me lo sono guardato con calma nei giorni seguenti. E’ così che mi sono riemersi dagli abissi della memoria i commenti che sentivo in casa e fuori fatti da chi aveva visto il film, in quell’epoca lontana. Per esempio: “ma come fa una ad essere così cretina ad andare da sola, a quel punto, ad un appuntamento con l’uomo che è sicuramente l’assassino.” E soprattutto, clou dei clou, i “che schifo!!!” e “che impressione!!!” alla scena (prolungata all’infinito, e da varie angolazioni) in cui un pipistrello s’infila (per cinque minuti abbondanti) tra i capelli di Florinda Bolkan.
Non è un brutto film, intendiamoci: è stato realizzato da veri professionisti, e ogni sequenza – presa in sè, come corpo a parte – merita di essere vista. E’ l’insieme che non c’è: non c’è nulla di verosimile, e le sequenze sembrano montate accorpandole alla bell’e meglio, senza avere una chiara idea di dove si sta andando: l’assassino è il rosso, no è il marito, no è il padre, no è lei, no è uno dei drogati - e in questi casi si ricorre, alla fine, al vecchio trucchetto: era un sogno, il delirio di un malato, un effetto della droga. Così ci sta dentro tutto, non si butta via niente e non si deve riscrivere la sceneggiatura (però allo spettatore viene un gran mal di testa).
Quando si tira in ballo Hitchcock a proposito di questi film (di Fulci e di Argento), ci si dimentica sempre di alcuni dettagli fondamentali. Per esempio: i film di Hitchcock presi scena per scena sono ancora più inverosimili di questi, ma sembrano verosimili e si accetta tutto quello che ci viene messo davanti come se fosse davvero possibile (la sabbia all’uranio nascosta nelle bottiglie in cantina, Cary Grant inseguito su e giù per il Monte Rushmore, eccetera); e lo si accetta perché Hitchcock era veramente capace di raccontare.
Questo film è anche un piccolo compendio di storia del cinema, per via delle cose rubacchiate o scopiazzate qua e là. C’è molto Hitchcock, quello più banale e grossolano (il coltello intravisto di là dalla porta, il teatro come set per un omicidio, gli uccelli in agguato...); ci sono le “inquadrature storte” alla Orson Welles (comprese quelle che partono dallo specchio, che subito uno non se ne accorge: sai che figo!); c’è la raffinatezza estenuata di Antonioni in Zabriskie Point, hippies compresi; c’è il tizio che forse è l’assassino e che occupa il suo tempo spaccando nocciole come se abitasse in un film di Fritz Lang (il nazista che fa scrocchiare le nocche delle dita è in “Anche i boia muoiono”). E, nel finale, una bella inquadratura alla “mo’ te faccio vedé come se fa”: l’ispettore a sinistra, la Bolkan in primo piano, e in mezzo un angelo di pietra, parte dell’arredo della villa (very simbolista, quasi Buñuel).
E poi c’è l’ispettore che fischietta per tutto il film, un’insistenza fastidiosa e inutile, e per di più a volume superiore rispetto al resto della colonna sonora (ancora Lang, ancora Buñuel, Sergio Leone...); ci sono le zoomate di lei in primo piano mentre parte un sottofondo di tuoni e fulmini (simil Morricone, ma fatto da Morricone in persona), il primo piano del telefono mentre si telefona, i drogati di LSD che hanno le visioni (tanto di attualità in quegli anni), eccetera. Memorabile la scena in cui la Bolkan sviene nel teatro, e cade proprio sulla leva dove c’è il cartello “non toccare” che fa partire l’enorme organo a canne (e questo è proprio Bugs Bunny contro Duffy Duck, oppure Gianni e Pinotto), così che l’assassino indovina subito dove lei si nasconde.
Tutto bellino, intendiamoci: divertente, perfino. Tutto senza spessore, come un fumetto di terz’ordine. Però meritano una menzione i luoghi dove il film è girato, che copio dai titoli di coda: locations inglesi, l’Alexandra Palace (dove c’è l’organo, gigantesco), la meravigliosa villa di Woburn Alley, proprietà del Duca di Bedford.
E gli attori: il grande Leo Genn nel ruolo del padre, Jean Sorel, Silvia Monti, e tanti altri che si fa fatica a citarli tutti (ma anche a loro, agli attori che fanno le piccole parti, siamo molto affezionati, e li rivediamo sempre volentieri).
PS: La lucertola con la pelle di donna è qualcosa di gelido, fuori attraente e dentro repulsiva (repulsiva per un uomo: uno dei temi del film è l’omosessualità femminile, ovviamente vista in modo molto morboso). Ma è anche la visione di un drogato (anche i drogati erano di gran moda, in quegli anni): al commissariato, uno degli hippies che erano presenti all’omicidio racconta le sue visioni all’ispettore, e c’è dentro anche la lucertola con la pelle di donna. « Ma che schifo!» sbotta il commissario. « No, ma cosa dice? Era bel-lis-si-ma...», dice il drogato: e qui dovete fare un piccolo sforzo d’immaginazione, e provare a ricostruire il modo in cui il drogato dice “bellissima”: forse solo Carlo Verdone da giovane è riuscito a realizzare un numero comico simile...
Giuliano
Nei cinema dei paesi piccoli, come il mio, raramente arrivavano i grandi capolavori, o i grandi successi. Per avere le pellicole, che venivano stampate una per una a partire dal negativo (come le fotografie), i gestori del cinema dovevano pagare il noleggio; e il noleggio dei grandi successi costava caro. Non è come oggi, insomma, che il dvd di “Via col vento” o del “Dottor Zivago” costano dieci euro proprio come un filmetto qualsiasi.
Ecco un piccolo elenco dei titoli che arrivavano nel cinema del mio paese, a inizio anni ’70: Franchi e Ingrassia; Lando Buzzanca; la Wertmuller; film con cantanti famosi (Gianni Morandi in testa, ma anche il Celentano di “Serafino”); film di vampiri ma solo quelli a basso costo (“Yorga il vampiro”: chi se lo ricorda ancora?); film di kungfu (che poi i quattordicenni si gasavano, e all’uscita dal cinema prendevano a calci le macchine e le saracinesche), eccetera. Se andava bene, ad essere proprio fortunati, c’era Bud Spencer: i primissimi film, quando ancora non faceva coppia con Terence Hill ma già tirava sganassoni in ambito western.
E poi c’erano Lucio Fulci e Dario Argento. I titoli, memorabili come proverbi e scioglilingua: “Sette scialli di seta gialla”, “Una lucertola dalla pelle di donna”; “Quattro mosche di velluto grigio”; “Non si sevizia un paperino”, e, infine, il clamoroso successo di “Profondo rosso” (il gestore del cinema l’avrà pagato caro, ma sapendo che la gente sarebbe accorsa). Molti di questi film io non li ho visti, perché erano vietati ai minori di 14 anni, e quando sono usciti io a quell’età non ci arrivavo ancora. Per questo, quando a notte fonda ho visto che davano in tv “Una lucertola con la pelle di donna” di Lucio Fulci, ho puntato il registratore e me lo sono guardato con calma nei giorni seguenti. E’ così che mi sono riemersi dagli abissi della memoria i commenti che sentivo in casa e fuori fatti da chi aveva visto il film, in quell’epoca lontana. Per esempio: “ma come fa una ad essere così cretina ad andare da sola, a quel punto, ad un appuntamento con l’uomo che è sicuramente l’assassino.” E soprattutto, clou dei clou, i “che schifo!!!” e “che impressione!!!” alla scena (prolungata all’infinito, e da varie angolazioni) in cui un pipistrello s’infila (per cinque minuti abbondanti) tra i capelli di Florinda Bolkan.
Non è un brutto film, intendiamoci: è stato realizzato da veri professionisti, e ogni sequenza – presa in sè, come corpo a parte – merita di essere vista. E’ l’insieme che non c’è: non c’è nulla di verosimile, e le sequenze sembrano montate accorpandole alla bell’e meglio, senza avere una chiara idea di dove si sta andando: l’assassino è il rosso, no è il marito, no è il padre, no è lei, no è uno dei drogati - e in questi casi si ricorre, alla fine, al vecchio trucchetto: era un sogno, il delirio di un malato, un effetto della droga. Così ci sta dentro tutto, non si butta via niente e non si deve riscrivere la sceneggiatura (però allo spettatore viene un gran mal di testa).
Quando si tira in ballo Hitchcock a proposito di questi film (di Fulci e di Argento), ci si dimentica sempre di alcuni dettagli fondamentali. Per esempio: i film di Hitchcock presi scena per scena sono ancora più inverosimili di questi, ma sembrano verosimili e si accetta tutto quello che ci viene messo davanti come se fosse davvero possibile (la sabbia all’uranio nascosta nelle bottiglie in cantina, Cary Grant inseguito su e giù per il Monte Rushmore, eccetera); e lo si accetta perché Hitchcock era veramente capace di raccontare.
Questo film è anche un piccolo compendio di storia del cinema, per via delle cose rubacchiate o scopiazzate qua e là. C’è molto Hitchcock, quello più banale e grossolano (il coltello intravisto di là dalla porta, il teatro come set per un omicidio, gli uccelli in agguato...); ci sono le “inquadrature storte” alla Orson Welles (comprese quelle che partono dallo specchio, che subito uno non se ne accorge: sai che figo!); c’è la raffinatezza estenuata di Antonioni in Zabriskie Point, hippies compresi; c’è il tizio che forse è l’assassino e che occupa il suo tempo spaccando nocciole come se abitasse in un film di Fritz Lang (il nazista che fa scrocchiare le nocche delle dita è in “Anche i boia muoiono”). E, nel finale, una bella inquadratura alla “mo’ te faccio vedé come se fa”: l’ispettore a sinistra, la Bolkan in primo piano, e in mezzo un angelo di pietra, parte dell’arredo della villa (very simbolista, quasi Buñuel).
E poi c’è l’ispettore che fischietta per tutto il film, un’insistenza fastidiosa e inutile, e per di più a volume superiore rispetto al resto della colonna sonora (ancora Lang, ancora Buñuel, Sergio Leone...); ci sono le zoomate di lei in primo piano mentre parte un sottofondo di tuoni e fulmini (simil Morricone, ma fatto da Morricone in persona), il primo piano del telefono mentre si telefona, i drogati di LSD che hanno le visioni (tanto di attualità in quegli anni), eccetera. Memorabile la scena in cui la Bolkan sviene nel teatro, e cade proprio sulla leva dove c’è il cartello “non toccare” che fa partire l’enorme organo a canne (e questo è proprio Bugs Bunny contro Duffy Duck, oppure Gianni e Pinotto), così che l’assassino indovina subito dove lei si nasconde.
Tutto bellino, intendiamoci: divertente, perfino. Tutto senza spessore, come un fumetto di terz’ordine. Però meritano una menzione i luoghi dove il film è girato, che copio dai titoli di coda: locations inglesi, l’Alexandra Palace (dove c’è l’organo, gigantesco), la meravigliosa villa di Woburn Alley, proprietà del Duca di Bedford.
E gli attori: il grande Leo Genn nel ruolo del padre, Jean Sorel, Silvia Monti, e tanti altri che si fa fatica a citarli tutti (ma anche a loro, agli attori che fanno le piccole parti, siamo molto affezionati, e li rivediamo sempre volentieri).
PS: La lucertola con la pelle di donna è qualcosa di gelido, fuori attraente e dentro repulsiva (repulsiva per un uomo: uno dei temi del film è l’omosessualità femminile, ovviamente vista in modo molto morboso). Ma è anche la visione di un drogato (anche i drogati erano di gran moda, in quegli anni): al commissariato, uno degli hippies che erano presenti all’omicidio racconta le sue visioni all’ispettore, e c’è dentro anche la lucertola con la pelle di donna. « Ma che schifo!» sbotta il commissario. « No, ma cosa dice? Era bel-lis-si-ma...», dice il drogato: e qui dovete fare un piccolo sforzo d’immaginazione, e provare a ricostruire il modo in cui il drogato dice “bellissima”: forse solo Carlo Verdone da giovane è riuscito a realizzare un numero comico simile...
Per me questo film è nel suo genere esemplare.
RispondiEliminaDegli ottimi attori, su cui non c'è niente da dire. Una produzine evidentemente non sparagnina. Delle locations che pochi sarebbero stati in grado di permettersi. Una conoscenza vera di tutti i trucchi (la grammatica e la sintassi) del cinema. Una cultura vasta su come i più grandi registi avessero usato i suddetti trucchi. Una attenzione convinta al diffuso guardonismo (e la Bolkan era l'ideale: brava attrice, disinibita, e con un suo orientamento sessuale che ai guardoni, che sono tanti, interessava).
Il successo c'è stato, questo film, nel suo genere è un cult. Ma il punto è che sotto il vestito niente. Secondo me, per poco che conosco gli esseri umani, Fulci, sotto il vestito avrebbe voluto metterci qualcosa, ma non era ontologicamente in grado se non di metterci il niente che ci ha messo.
A differenza di certe altre operazioni diffusamente spregiate ma in cui qualcosa c'era: Malizia di Samperi e La chiave (eh sì!) di Tinto Brass. Bisogna stare attenti a sapersi accorgere che anche attraverso il guardonismo a volte si riesce a dire qualcosa.
salidos
Solimano