Quelle di quest'anno, senza dubbio, sono state per me delle vacanze davvero cinematografiche. Non contenta di aver visitato i luoghi dello sbarco in Normandia, teatro de Il giorno più lungo, sulla via del ritorno mi sono fermata nei pressi di Grenoble, vicino al paesino di Saint-Laurent, dove sorge l'abbazia della Grande Chartreuse. Qui Philip Groening ha girato, con infinita pazienza (una pazienza che potrei definire da certosino, se non sapessi di cadere nel facile gioco di parole) il recente film-documentario Il grande silenzio, nel quale osserva e riporta i dati relativi alla vita monastica con occhio per metà da mistico ispirato e per metà da entomologo minuzioso. Il film, da più parti osannato come un capolavoro assoluto, personalmente non mi ha entusiasmato, mentre il luogo, al contrario, mi ha colpito molto. Già la via d'accesso al sito del complesso monastico è suggestiva, stretta tra gole e costoni di roccia che immagino particolarmente affascinanti in inverno, ricoperti di neve. Sopra l'arco di una galleria, faticosamente scavata nel fianco della montagna, una pomposa lapide ricorda Monsieur XYZ, che fece aprire quella strada intorno al 1890, in qualità di soprintendente ai lavori pubblici, con sforzo senz'altro notevole soprattutto da parte dei suoi (ahimè ignoti) operai. Ai lati, la tipica vegetazione ad alto fusto, mentre giù in fondo s'indovina lo scorrere rapido e tortuoso di un torrente. Infine, ecco che lo spazio si allarga, lasciando apparire una serie di costruzioni collegate fra loro e recintate da mura bianche: è la foresteria del convento, trasformata in museo e luogo di accoglienza per i turisti, dato che la Chartreuse vera e propria -raggiungibile solo a piedi attraverso un sentiero di circa 2 km- non è visitabile dal pubblico (cosa, questa, a mio parere estremamente saggia).
Nella foresteria, del resto, il clima raccolto e meditativo del monastero è molto ben presentato, esponendo l'arredamento tipico delle celle di clausura, i libri, le immagini sacre e gli oggetti d'uso quotidiano senza fronzoli e senza eccessi mistici: anzi, con una certa semplicità quasi ingenua che mi ha in parte riconciliato anche con il film, spingendomi quasi a considerare l'ipotesi di rivederlo in dvd (soluzione, tra l'altro, molto vantaggiosa per chi voglia velocizzare un po' le tre ore e passa di pellicola). Nell'ultima sala, prima dell'uscita, scorrono su uno schermo le immagini delle interviste ad alcuni monaci, girate -presumo- dallo stesso Groening. La conoscenza del francese mi permette di cogliere il significato delle parole, ma ho la netta impressione che il vero messaggio non sia quello verbale: è l'espressione serena dei volti, la luce fiduciosa negli occhi, il sorriso tranquillo a colpire. Questi uomini hanno l'aria di aver raggiunto qualcosa che alla maggioranza sfugge. O che, forse, alla maggioranza non si addice. In ogni caso, mi trovo ad invidiare la loro pace, per quanto sappia che non potrei mai condividerla. Ed è con un misto di sollievo e di inquietudine che oltrepasso il cancello per tornare alla vita secolare: incrociando -manco a farlo apposta- un'orda di miei connazionali vocianti, i quali, armati di macchine digitali, cellulari con fotocamera ed mp3, si apprestano baldanzosamente a violare il grande silenzio dell'abbazia...
Roby, è una esperienza molto interessante e che in buona parte condivido.
RispondiEliminaNon appartengo alla maggioranza delle persone, laiche o credenti, che dicono di non capire l'esperienza dei monasteri, specie di clausura e di apprezzare invece i preti e le suore che fanno del volontariato e che sono impegnati nel sociale(che brutto termine!)
Prima di tutto perché volontariato è per me parola piuttosto sospetta. Spesso il dedicarsi a queste attività è una compensazione di qualche insoddisfazione nel rapporto con sé stessi. E quindi è una attività ambigua, e chi riceve il loro cosidetto volontariato al 99% se ne accorge e non gli piace.
Poi l'Italia è il paese del volontariato di sostituzione: molte attività andrebbero svolte in modo pianificato e sistematico, come avviene nei migliori paesi europei. C'è anche una componente di business (soldi, soldi, e spesso tanti) da non dimenticare.
Chi, oggi, fa una scelta di vita di clausura o di monastero, la fa con covinzione profonda, in genere, sennò massimo in un anno getta la spugna. Il dedicarsi con coerenza ad un progetto di vita del genere è ammirevole, e può dare ottimi risultati nella cultura e nell'arte ad esempio, ma non solo. Poi, Teresa d'Avila e Giovanni della Croce me li sono letti: lui è un poeta fra i massimi e lei un personaggio veramente grande, una lottatrice instancabile, anche una ottima scrittrice: la sua Storia si un'anima, depurata di una serie di bigotterie che erano di uso comune, è un libro molto profondo, e Teresa aveva facoltà non dico paranormali, perché non ci credo, ma certamente molto al di sopra del normale. La concentrazione mirabile da tutti i punti di vista: architettura, musica, pittura, boranica etc del monastero aiuta a vivere meglio, di una vita al tempo stesso spoglia e ricca.
grazie e saludos
Solimano
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