Little Buddha di Bernardo Bertolucci (1993) Sceneggiatura di Bernardo Bertolucci, Rudy Wurlitzer, Mark Peploe Con Keanu Reeves, Ruocheng Ying, Chris Isaak, Bridget Fonda, Alex Wiesendanger, Jo Champa Musica: Ryuichi Sakamoto Fotografia: Vittorio Storaro (140 minuti) Rating IMDb: 5.5
Solimano
Quando vidi questo film ero ancora sotto l'influenza di alcune notevoli scritture buddhiste, e Piccolo Buddha mi parve colorito e vernacolare, anche se travestito da giaculatoria cosmopolita.
Come Zeffirelli aveva fatto su San Francesco, così Bertolucci sul Buddha.
Bertolucci è un uomo strano, capace di verità dure e bellissime come in Ultimo tango a Parigi, ne Il tè nel deserto, ne Il conformista, però in balìa del voler piacere a tutti, o almeno di stupire, e la chiacchierata cosmesi del pube di Maria Schneider è un po' una piratesca bandiera: ha già la bellezza fra le dita, ma non gli basta.
Qui ci sono gli asceti con i capelli disordinati, le pustole ed il fango al posto giusto.
I tre bimbi che sono tutti e tre reincarnazioni del Lama divengono una parodia involontaria della Trinità. Finisce che la faccia più giusta è quella del papà del bimbo di Seattle, una faccia che esprime negazione, dubbio, ricerca: Siddharta è proprio lui, che può diventare Buddha. Non il pallone gonfiato dotato di occhi del tempio, non il sentenzioso vecchio con la voce simile a quella del mio maestro di yoga.
Gli elefanti, nemmeno Bertolucci riesce a riportarli dal koan al satori o viceversa: sono giocattoli troppo grossi anche per uno come lui, mentre con i cobra si può fare.
E le tentazioni? Prima cinque Salomè di sangue misto, ma di carnalità simulata, con una meravigliosa altalena, poi l'esercito con frecce infiammate, che diventano coriandoli son et lumière, il bruttaccio barbanera che fa tremuoti e nuvolaglia, infine il doppio di Siddharta, che però supera anche l'ultima tentazione, così il suo doppio si dissolve.
Ma il cuore di Bertolucci batte a Seattle, accompagnato dal portafoglio, e l'ingegnere, visto che il giovane figlio è sistemato nella reincarnazione trinitaria, può provvedere a sé stesso, può costruirsi da solo il mandala, come il frate spagnolo che da trent'anni si costruisce da solo una cattedrale, sapendo benissimo che qualcuno, non lui, provvederà a distruggere, ma non è una buona ragione per non costruire.
In una intervista, Bertolucci si paragona a Bunuel. No. Qui i suoi sono educati sberleffi, mentre in Bunuel il sangue non è succo di pomodoro, il nero è nero, e la verità è derisa e al tempo stesso riconosciuta. Se il buddhismo fosse questo, avrebbe ragione un mio amico: "Storielle zen".
Caro Solimano, non sono molto d'accordo sulla tua analisi. Ma per continuare il discorso mi serve tempo, per il Piccolo Buddha ci rivediamo a settembre.
RispondiEliminaQuesto è un film molto più fine di quanto non sembri, e la chiave sta nel libro per bambini che il lama regala al bambino: un libro per bambini con la vita di Siddharta raccontata ai bambini.
Giuliano, ne discuteremo volentieri e con profitto.
RispondiEliminaQuando vidi il film, ero culturalmente molto vicino al buddhismo zen, che oggi ritengo un mito splendido e fecondissimo nelle arti (la prova che il mito era necessario). Lo zen è molto diverso dal buddhismo tibetano. Inoltre, fu proprio quella specie di infantilismo a disturbarmi nel film: tutte le grandi religioni orientali (ammesso che per il buddhismo si possa parlare di religione), richiedono un cammino che dura anni ed anni, a partire dallo yoga, che è ben di più di una ginnastica à la page, è un cammino di perfezione.
saludos
Solimano
Anch'io, prima di dare un giudizio, avrei bisogno di rivedere il film: dopo la "prima visione", l'unica impressione che ne ricavai fu di sottile noia e di leggero senso del ridicolo... ma si trattava di quasi 15 anni fa: ero in un altro momento, in un'altra età, in una diversa condizione di spirito....
RispondiElimina[:-P]
A bientot
Roby
In breve, Bertolucci parla della diffusione del buddismo nel mondo. Non so se sia una metafora riuscita, ma ricordo che anche il Dalai Lama è riuscito a sorridere sul suo destino: "si vede che era destino, andar via dal Tibet mi ha consentito di conoscere il resto del mondo e di far conoscere la mia cultura..."
RispondiEliminaC'è da dire una cosa. Quando vidi il film, ero reduce da un periodo piuttosto lungo e non superficiale di forte coinvolgimento culturale, mentale ed emotivo nel buddismo, e in genere nel mondo orientale, indiano in particolare. Avevo letto molto, avevo conosciuto persone, praticato yoga e tai chi chuan. Avevo letto Suzuki e Watts, e due americane che ricordo ancora con affetto: Charlotte Yoko Book (quella di Zen quotidiano) e Natalie Goldberg (quella di Scrivere Zen). Avevo persino scritto haiku, ma non le pistolate che oggi tutti scrivono haiku, haiku rigorosi, che poi ho smarrito (meravigliosa fine buddista). Bertolucci ha fatto un film divulgativo, il buddismo è serio e profondo, anche se Ratzinger, poveretto, asserì che si trattava di "autoerotismo mentale"... a proposito della supponente invadenza di certo monoteismo. Non si può spacciare il buddismo sull'onda de "Lo zen e l'aarte della manutenzione della motocicletta", dallo zen sono nate arti grandissime. Poi c'è che il lamaismo è tutt'affatto diverso dal buddismo che io preferivo.
RispondiEliminaFilm molto seri sulle religioni orientali ci sono, qualcuno uscirà qui, ma il massimo che posso accettare è che questo film sia come Amelie: un bel cartone animato. In questo senso è bello. Infine, se c'è uno che psicologicamente è molto lontano dal buddismo è proprio Bertolucci. Forse, in quel periodo di fallimenti politici, era alla ricerca di qualcosa di sostitutivo, come tanti altri.
saludos
Solimano