giovedì 5 luglio 2007

Anthony Burgess, l'arancia e il cinema (1)

Malcom McDowell in Un'arancia a orologeria

"Perché mi tagliarono l'arancia"
Anthony Burgess, Corriere della Sera 3 maggio 1987

Ho pubblicato per la prima volta la novella Un'arancia a orologeria nel 1962: dovrebbe essere passato abbastanza tempo perché sia stata cancellata dalla memoria letteraria del mondo. Eppure rifiuta di essere cancellata, e la principale responsabilità di questo può essere attribuita alla versione cinematografica del libro fatta da Stanley Kubrick. Quanto a me, dovrei essere contento di ripudiarla per varie ragioni, ma non mi è permesso. Ricevo lettere di studenti che cercano di scriverne tesi di laurea, o richieste di drammaturghi giapponesi che vogliono trasformarla in una sorta di tragedia No.
Sembra proprio che sopravviva, mentre altri miei lavori, che apprezzo di più, mordono la polvere. Non è un esperienza insolita per un artista. Rachmaninov era solito protestare perché lo conoscevano soprattutto per un preludio in do diesis minore che aveva scritto da ragazzo, mentre le sue opere della maturità non entravano mai nei programmi. I ragazzini si fanno le ossa al pianoforte su un minuetto in sol che Beethoven compose soltanto per poterlo detestare. Io devo continuare a convivere con Un'arancia a orologeria, e ciò significa che ho una specie di dovere d'autore nei suoi confronti. Un dovere tutto particolare nei suoi confronti ce l'ho negli Stati Uniti, e ora è meglio che spieghi in che cosa questo dovere consiste..
Esporrò la situazione in parole povere. Un'arancia a orologeria in America non è mai stato pubblicato per intero. Il libro che ho scritto è diviso in tre parti di sette capitoli ciascuna. Tirate fuori la calcolatrice tascabile e vedrete che fa un totale di ventun capitoli. 21 è il simbolo della maturità dell'uomo, o così era una volta, dato che a 21 anni si otteneva il voto e ci si assumeva la responsabilità di persone adulte. Quale che ne sia la simbologia, è dal numero 21 che sono partito.
Ai romanzieri del mio stampo la cosiddetta numerologia interessa, nel senso che il numero ha un qualche significato in termini umani quando lo maneggiano. Il numero dei capitoli non è mai del tutto arbitrario. Proprio come un compositore di musica comincia con una vaga immagine della struttura e della durata, così un romanziere comincia con un'immagine dello spazio, e questa immagine si esprime nel numero di parti e nel numero di capitoli nei quali il lavoro verrà organizzato. Quei ventun capitoli per me erano importanti.
Ma non erano importanti per il mio editore newyorchese. Il libro che ha pubblicato ha solo venti capitoli. Ha insistito per tagliare il ventunesimo. Naturalmente potevo impuntarmi, e portare il mio libro da qualche altra parte, ma era opinione che lui fosse già abbastanza caritatevole ad accettare l'opera, e che tutti gli altri editori di New York o di Boston avrebbero preso a calci il manoscritto. Avevo bisogno di soldi, nel lontano 1961, anche dell'elemosina che mi era stata offerta come anticipo, e se la condizione perché il libro fosse accettato era una sua amputazione; be', andasse per l'amputazione. Così c'è una profonda differenza tra Un'arancia a orologeria che si conosce in Gran Bretagna e il volume un po' più smilzo che porta lo stesso nome negli Stati Uniti.
Andiamo avanti. Al resto del mondo il libro è stato venduto dalla Gran Bretagna, quindi la maggior parte delle versioni ‑ sicuramente quelle in francese, italiano, spagnolo, catalano, russo. ebraico, romeno e tedesco - hanno i ventuno capitoli originali. Quando Stanley Kubrick ne ha fatto il film ‑ pur avendolo fatto in Inghilter­ra ‑ ha seguito la versione americana e ha finito la storia, cosi è sembrato al suo pubblico fuori dall'America, un po' prematuramente.
Non che il pubblico abbia chiesto a gran voce i soldi indietro, ma si è chiesto come mai Kubrick avesse tralasciato l'epilogo. C'è gente che mi ha scritto per questo ‑ in realtà, gran parte della mia vita più recente l'ho passata a fare fotocopie di dichiarazioni di intenti e nella frustrazione degli intenti ‑mentre sia Kubrick che il mio editore newyorchese prosperano con disinvoltura dei compensi del loro misfatto. La vita, naturalmente, è terribile.
Che cosa accade in quel ventunesimo capitolo? Ora avete la possibilità di scoprirlo. In breve, il mio crudele protagonista cresce. Cresce annoiato della violenza e riconosce che l'energia umana è spesa meglio nella creazione che nella distruzione. La violenza senza senso è una prerogativa della gioventù, che ha molta energia ma poco talento per ciò che è costruttivo. Il suo dinamismo deve trovare uno sfogo nella distruzione delle cabine del telefono, nel deragliamento dei treni, nel furto di automobili e nella loro distruzione e, naturalmente, nella molto più soddisfacente attività di rovinare gli esseri umani. Ma arriva il momento in cui la violenza viene considerata un fenomeno giovanile e noioso. E' la risposta dello stupido e dell'ignorante.
Al mio giovane teppista si rivela il bisogno di far qualcosa nella vita: di sposarsi, di procreare, di lasciare che l'arancia del mondo giri nelle mani di Dio, e magari anche di creare qualcosa ‑ della musica, per esempio. ­Dopo tutto Mozart e Mendelssohn creavano musica immortale a diciott'anni (nella nadsat), e tutto quello che il mio eroe stava facendo era squartare (razrezzing) e fare il vecchio vaevieni. E' con una sorta di vergogna che questo giovane, crescendo, guarda indietro al suo passato di devastazione. Vuole un tipo di futuro diverso.
Non c'è traccia di questo cambiamento di intenti nel ventesimo capitolo. Il ragazzo è condizionato, poi decondizionato, e prevede esultante una ripresa delle operazioni dell'arbitrio libero e violento. «Ero guarito davvero», dice, e così finisce il libro americano. E così finisce anche il film".
(continua)

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