Solimano
Dopo aver visto Il settimo sigillo, per alcuni anni fui molto attento a tutto quello che riguardava Ingmar Bergman: Il posto delle fragole, La fontana della vergine, Il volto li vidi in prima visione, non più nel cinema parrocchiale dove Bergman aveva per me esordito. Riuscii anche a vedere un suo film precedente, Sorrisi di una notte d'estate, quello che lo aveva fatto apprezzare da tutti al Festival di Cannes del 1955 (ma lo appresi tempo dopo). Da questo film fui spiazzato, faticai a comprendere perché Bergman fosse così poco serio. Punto prima, allora era costume universale che esistessero i film seri da guardare con serietà, ed i film comici da guardare ridendo. So benissimo che gli addetti ai lavori erano molto più avanti, ma il comune sentire degli spettatori di una città come Parma era così: ridere era sospetto, sorridere forse lo era ancora di più, perché non si capiva bene da cosa sorgesse il sorriso e soprattutto a cosa portasse. Sembra oggi incredibile che nell'edizione italiana del film il figlio di Henrik Egerman (Gunnar Biornstrand) ne divenisse il nipote, e che i suoi studi universitari migrassero da teologia a filosofia, ma accadde così, e non credo per un intervento censorio, ma perché a tutti sembrava inopportuno che un figlio studente in teologia portasse via al padre la giovane seconda moglie (ancora illibata, cosa fondamentalissima). Non solo, ma Henrik, in attesa che la ritrosìa della giovane sposa si sciogliesse, era l'amante dell'attrice Desirée Armefeldt (Eva Dahlbech), che a sua volta aveva una relazione col conte Karl, aristocratico focoso e geloso, e così via: gli scrupolosi giudici cattolici che etichettavano i film avranno certamente appioppato un bell'Escluso per tutti a Sorrisi di una notte d'estate, e allora ci si badava. Ma soprattutto, c'era il non detto. Non era accettabile che in tutte e quattro le coppie del film quelle che ne uscivano bene erano le quattro donne, non per volontaristico femminismo ante litteram, ma così, per la naturalezza con cui ognuna di loro viveva la sua provvisorietà sentimentale. Persino critiche di anni dopo definiscono il film "amarissimo", quasi contrappasso ad una disinvoltura a noi ignota. Ma quando mai, incanto e disincanto, ecco cos'è Sorrisi di una notte d'estate, incanto e disincanto che non si combattono, ma si rafforzano a vicenda, nella mirabile e quotidiana utopia che chiamiamo amore. E se le quattro donne ne escono bene, è perché ognuna di esse, con sensuosa pietà, provvede alla felicità di quei poveracci dei loro uomini, che in scienze amorose credono di sapere ma non sanno, che vogliono sovrapporre la loro volontà piccina (funzione di funzione) alla esistenza inesorabile della notte estiva (funzione di stato). Poi ne escono bene, le donne, perché si tratta di Eva Dalhbeck, di Ulla Jacobsson, di Harriet Andersson, di Margit Carlqvist, merito loro, ma merito soprattuto dell'occhio insaziato e mai difettivo di Ingmar Bergmann. Sono un grande film che dura ormai quasi sessant'anni, le donne di Bergman attraverso i suoi film. Una epopea di sorrisi, di sguardi, di corpi, ma soprattutto di pensieri lievi e profondi, dolorosissimi anche, incardinati negli accadimenti, bellezze di verità.
Dopo aver visto Il settimo sigillo, per alcuni anni fui molto attento a tutto quello che riguardava Ingmar Bergman: Il posto delle fragole, La fontana della vergine, Il volto li vidi in prima visione, non più nel cinema parrocchiale dove Bergman aveva per me esordito. Riuscii anche a vedere un suo film precedente, Sorrisi di una notte d'estate, quello che lo aveva fatto apprezzare da tutti al Festival di Cannes del 1955 (ma lo appresi tempo dopo). Da questo film fui spiazzato, faticai a comprendere perché Bergman fosse così poco serio. Punto prima, allora era costume universale che esistessero i film seri da guardare con serietà, ed i film comici da guardare ridendo. So benissimo che gli addetti ai lavori erano molto più avanti, ma il comune sentire degli spettatori di una città come Parma era così: ridere era sospetto, sorridere forse lo era ancora di più, perché non si capiva bene da cosa sorgesse il sorriso e soprattutto a cosa portasse. Sembra oggi incredibile che nell'edizione italiana del film il figlio di Henrik Egerman (Gunnar Biornstrand) ne divenisse il nipote, e che i suoi studi universitari migrassero da teologia a filosofia, ma accadde così, e non credo per un intervento censorio, ma perché a tutti sembrava inopportuno che un figlio studente in teologia portasse via al padre la giovane seconda moglie (ancora illibata, cosa fondamentalissima). Non solo, ma Henrik, in attesa che la ritrosìa della giovane sposa si sciogliesse, era l'amante dell'attrice Desirée Armefeldt (Eva Dahlbech), che a sua volta aveva una relazione col conte Karl, aristocratico focoso e geloso, e così via: gli scrupolosi giudici cattolici che etichettavano i film avranno certamente appioppato un bell'Escluso per tutti a Sorrisi di una notte d'estate, e allora ci si badava. Ma soprattutto, c'era il non detto. Non era accettabile che in tutte e quattro le coppie del film quelle che ne uscivano bene erano le quattro donne, non per volontaristico femminismo ante litteram, ma così, per la naturalezza con cui ognuna di loro viveva la sua provvisorietà sentimentale. Persino critiche di anni dopo definiscono il film "amarissimo", quasi contrappasso ad una disinvoltura a noi ignota. Ma quando mai, incanto e disincanto, ecco cos'è Sorrisi di una notte d'estate, incanto e disincanto che non si combattono, ma si rafforzano a vicenda, nella mirabile e quotidiana utopia che chiamiamo amore. E se le quattro donne ne escono bene, è perché ognuna di esse, con sensuosa pietà, provvede alla felicità di quei poveracci dei loro uomini, che in scienze amorose credono di sapere ma non sanno, che vogliono sovrapporre la loro volontà piccina (funzione di funzione) alla esistenza inesorabile della notte estiva (funzione di stato). Poi ne escono bene, le donne, perché si tratta di Eva Dalhbeck, di Ulla Jacobsson, di Harriet Andersson, di Margit Carlqvist, merito loro, ma merito soprattuto dell'occhio insaziato e mai difettivo di Ingmar Bergmann. Sono un grande film che dura ormai quasi sessant'anni, le donne di Bergman attraverso i suoi film. Una epopea di sorrisi, di sguardi, di corpi, ma soprattutto di pensieri lievi e profondi, dolorosissimi anche, incardinati negli accadimenti, bellezze di verità.
Uno dei film più belli e importanti di Bergman. Oltre tutto, è anche un film sul teatro, e Bergman era uomo di teatro prima che di cinema.
RispondiEliminaE anticipa "Fanny e Alexander", che è un altro capolavoro assoluto.
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