Giuliano
Una nonna e i suoi nipoti, in agosto, nella campagna giapponese. Un film di una semplicità disarmante, quasi imbarazzante, difficile da seguire proprio per la sua linearità. Ma la campagna è quella vicina a Nagasaki, e su Nagasaki incombe ancora la tragedia che tutti conosciamo, o che dovremmo conoscere.
La nonna è piccolina, esile, antica; i nipotini sono quattro, due maschi e due femmine. I loro genitori sono andati alle Hawaii, a trovare uno zio (fratello della vecchina) che ormai da tempo, da prima della guerra, si è fatto cittadino americano. C’è anche Richard Gere, suo figlio, ormai del tutto americano; e sarà lui, andando a pregare a Nagasaki con i parenti giapponesi, a superare le antiche divisioni. Ma la pacificazione con gli americani, sia pure importante, è poco più di un pretesto narrativo, così come il contrasto fra le generazioni (è un film ottimista: i giovani sono migliori dei loro genitori...).
E’ un film a prima vista piccolo, quasi insignificante, lo si direbbe il film di un anziano signore che si ripiega sui ricordi, come il successivo “Madadayo” che sarà l’ultimo del grande regista giapponese. Ma questo è un’analisi molto superficiale, e purtroppo quasi tutta la critica ufficiale si è fermata qui. Ma Kurosawa è come Leonardo e come Picasso, come i disegni dei grandi pittori: con pochi segni del pennello riesce a dire un’infinità di cose. E’ come un ideogramma giapponese, noi vediamo pochi tratti sulla carta ma dietro quel disegno all’apparenza insignificante c’è un mondo di significati; e il ricordo della bomba atomica esce da questo piccolo film, per chi sa leggerlo, molto più forte che in tanti discorsi ufficiali.
E poi ci sono le musiche: la canzoncina che sentiamo cantare dai bambini, e che sembra una cosa per bambini, è su versi di Goethe; e la musica è di Schubert. Una canzoncina esile, d’altri tempi, (“Heidenröslein”, 1815) che racconta di un ragazzo che voleva cogliere una rosellina, e la rosellina si lascia cogliere però lo punge, così si ricorderà di lei.
E lo Stabat Mater di Vivaldi: drammatico, doloroso, una grande musica volutamente affidata non a una voce naturale di contralto ma alla voce affaticata e difficoltosa di un falsettista. Lo “Stabat Mater” di Jacopone da Todi, il lamento della Madre sotto la croce, ha affascinato i musicisti per secoli: da Palestrina a Giuseppe Verdi, e ancora nel Novecento, pochi si sono sottratti a questo testo così drammatico. E’ da sottolineare il momento che ha scelto Kurosawa, e che corrisponde alle parole “pertransivit gladius”. La tragedia di Hiroshima e Nagasaki diventa così stretta parente della spada che trafisse il costato di Cristo in croce: solo a Kurosawa poteva venire in mente un parallelo così toccante, che vale da solo più dei mille discorsi inutili che sentiamo fare ogni giorno. Ma pochi ormai possono capire questo messaggio, perchè sulla grande poesia e sulla grande musica ( e su Kurosawa) è caduta la più terribile delle censure: la censura di mercato.
Una nonna e i suoi nipoti, in agosto, nella campagna giapponese. Un film di una semplicità disarmante, quasi imbarazzante, difficile da seguire proprio per la sua linearità. Ma la campagna è quella vicina a Nagasaki, e su Nagasaki incombe ancora la tragedia che tutti conosciamo, o che dovremmo conoscere.
La nonna è piccolina, esile, antica; i nipotini sono quattro, due maschi e due femmine. I loro genitori sono andati alle Hawaii, a trovare uno zio (fratello della vecchina) che ormai da tempo, da prima della guerra, si è fatto cittadino americano. C’è anche Richard Gere, suo figlio, ormai del tutto americano; e sarà lui, andando a pregare a Nagasaki con i parenti giapponesi, a superare le antiche divisioni. Ma la pacificazione con gli americani, sia pure importante, è poco più di un pretesto narrativo, così come il contrasto fra le generazioni (è un film ottimista: i giovani sono migliori dei loro genitori...).
E’ un film a prima vista piccolo, quasi insignificante, lo si direbbe il film di un anziano signore che si ripiega sui ricordi, come il successivo “Madadayo” che sarà l’ultimo del grande regista giapponese. Ma questo è un’analisi molto superficiale, e purtroppo quasi tutta la critica ufficiale si è fermata qui. Ma Kurosawa è come Leonardo e come Picasso, come i disegni dei grandi pittori: con pochi segni del pennello riesce a dire un’infinità di cose. E’ come un ideogramma giapponese, noi vediamo pochi tratti sulla carta ma dietro quel disegno all’apparenza insignificante c’è un mondo di significati; e il ricordo della bomba atomica esce da questo piccolo film, per chi sa leggerlo, molto più forte che in tanti discorsi ufficiali.
E poi ci sono le musiche: la canzoncina che sentiamo cantare dai bambini, e che sembra una cosa per bambini, è su versi di Goethe; e la musica è di Schubert. Una canzoncina esile, d’altri tempi, (“Heidenröslein”, 1815) che racconta di un ragazzo che voleva cogliere una rosellina, e la rosellina si lascia cogliere però lo punge, così si ricorderà di lei.
E lo Stabat Mater di Vivaldi: drammatico, doloroso, una grande musica volutamente affidata non a una voce naturale di contralto ma alla voce affaticata e difficoltosa di un falsettista. Lo “Stabat Mater” di Jacopone da Todi, il lamento della Madre sotto la croce, ha affascinato i musicisti per secoli: da Palestrina a Giuseppe Verdi, e ancora nel Novecento, pochi si sono sottratti a questo testo così drammatico. E’ da sottolineare il momento che ha scelto Kurosawa, e che corrisponde alle parole “pertransivit gladius”. La tragedia di Hiroshima e Nagasaki diventa così stretta parente della spada che trafisse il costato di Cristo in croce: solo a Kurosawa poteva venire in mente un parallelo così toccante, che vale da solo più dei mille discorsi inutili che sentiamo fare ogni giorno. Ma pochi ormai possono capire questo messaggio, perchè sulla grande poesia e sulla grande musica ( e su Kurosawa) è caduta la più terribile delle censure: la censura di mercato.
L’immagine rappresenta il parco memoriale di Nagasaki, il luogo dove caddero le bombe. La struttura metallica nell’aiuola è quello che rimane di qualcosa che c’era prima, un cancello o l’armatura di un edificio in cemento armato.
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