Giuliano
Inserire “Tempi moderni” in una serie sul lavoro nel cinema può sembrare scontato, banale. E poi ci sarà subito qualcuno che aggiunge che è un film vecchio, di settant’anni fa, figuriamoci, con tutto quello che è successo nel frattempo...
Invece no, il lavoro continua ad essere alienante come allora: e alienante non è un modo di dire, perché Charlot (come Lulù Massa – Gianmaria Volonté di “La classe operaia va in Paradiso”) al manicomio ci finisce per davvero, e anche in galera. C’è stata, è vero, una piccola parentesi (una ventina d’anni) in cui il posto di lavoro non era un inferno, o una punizione biblica: sono gli anni che sono seguiti all’autunno caldo del 1969, e che sono finiti a metà anni ‘90. Non è stata un’età dell’oro, ma operai e lavoratori dipendenti hanno potuto vivere bene, tirar su figli in maniera decente, farli studiare, comperare una casa, programmare un futuro. Oggi non è più così.
Il lavoro è cambiato, certo: non ci sono più le chiavi inglesi che usa Charlot nel film, adesso quei lavori li fanno i robot. E, da questo punto di vista, sono d’accordo con chi dice che “gli operai non ci sono più”: ma poi guardo le statistiche degli infortuni sul lavoro, e qualcosa non torna. Ascolto i racconti delle cassiere del supermarket, che devono andare al lavoro anche se i loro bambini hanno la febbre a 40 (e guai se arrivano in ritardo o vanno via un po’ prima). Ascolto e osservo, e qua e là trovo un servizio o un’intervista – sempre nascosta, in orari impossibili, quasi da stampa clandestina, che non si sappia troppo in giro – dove qualche prete della Caritas spiega che alle loro mense per i diseredati non vanno più soltanto gli extracomunitari e i barboni, ma un po’ tutti: anche milanesi doc, figuriamoci. Gente che fino a poco tempo fa stava bene, e che oggi – magari solo per aver passato i quarant’anni, gravissima colpa – farebbero volentieri compagnia a Paulette Goddard quando va a rubare le banane, come capita a Charlot in “Tempi moderni”.
Ma le nuove generazioni non sanno più chi è Charlot. Non lo si vede più in tv, e quando lo si vede è ridotto dentro la categoria del “vecchio e grazioso”. In realtà, Chaplin ebbe un’infanzia terribile, tra Ottocento e Novecento, negli slums di Londra. Ha avuto il dono di esprimersi con grazia, ma i suoi racconti sono terribili (ed è quello che si vede anche nelle sue comiche più buffe). E’ tutto descritto nella sua autobiografia, ma chi preferisce può leggersi Dickens, un libro qualsiasi, magari Oliver Twist o David Copperfield, o meglio ancora “Tempi difficili” (Hard times, 1854).
I nostri politici, economisti e giornalisti sembrano non accorgersene, e sbuffano se glielo andate a dire: ma il nostro futuro è lì, nei libri di Dickens e nei film di Chaplin. E, se non ci credete, andate un po’ a chiedere alla Caritas o alle mense dei francescani.
Giuliano, concordo con la tua lettura della situazione, anche se in modo un po' diverso, che è anche più grave. Per usare la metafora di De Masi, tu dici che il leone mangia la gazzella, che non ce la può fare a sottrarsi. Io aggiungo che il leone finirà per mangiare sé stesso, perché non si potrà cibare d'erba, quando non ci saranno più gazzelle. Nel senso che il disagio è universale, tocca tutti, non solo quelli immediatamente esposti, ma anche impiegati, capi, dirigenti: tutti in lotta l'uno con l'altro, tutti con un senso di appartenenza all'azienda sempre più fioco.
RispondiEliminaQuindi, il problema tocca e toccherà anche le aziende, proprio quelle che spingono in quella direzione. Una volta uno dei nostri disse al direttore generale: "L'azienda persegue la soddisfazione dei dipendenti", il boss rispose: "No, l'azienda persegue i suoi obiettivi di profitto, ma sa bene che con dipendenti soddisfatti li raggiunge più facilmente".
Questi di oggi si sono scordati la seconda parte della frase impeccabile del boss, e le conseguenze, da clienti, le tocchiamo con mano ogni giorno; appena ci sarà l'alternativa, cambieremo fornitori.
saludos
Solimano