venerdì 15 giugno 2007

Il grande coltello

The big knife di Robert Aldrich (1955) Commedia di Clifford Odets, Sceneggiatura di James Poe Con Jack Palance, Ida Lupino. Jean Hagen, Rod Steiger, Shelley Winters, Everett Sloan, Wesley Addy Musica: Frank de Vol Fotografia: Ernest Laszlo (111 minuti) Rating IMDb: 7.0
Solimano
Quella notte di Fuori orario, riuscii a registrare tutti e tre i film scelti da Enrico Grezzi: Il giorno della locusta, Good Morning Babilonia e Il grande coltello. Dei primi due ho già raccontato, mi rimane il terzo, ancora sul mondo del cinema.
Nei primi dieci minuti, non credevo ai miei occhi ed alle mie orecchie: tutto - personaggi e cose - era presentato con scrupolosa esattezza e non c’era una parola in più né una in meno. Un cinema del tutto diverso da quello a cui sono stato abituato. Finché mi resi conto che il motivo era semplicissimo: non era cinema, ma teatro, di quello in cui gli attori si immedesimano totalmente col personaggio. All’origine c’è il testo di Clifford Odets, che sicuramente avrà sbalordito, emozionato, fatto piangere o almeno incuriosito migliaia di spettatori in teatro, pieno com’è di colpi di scena, di tirate amore/odio, di seduzioni tentate e riuscite, di rimpianti del passato, di fughe in avanti, di cattivi eccessivi e di buoni ipocriti: il temine enfatico è appropriato, nel male e nel bene (c’è anche del buono, nell’essere enfatici).
Charles Castle (Jack Palance) è un attore cinematografico popolarissimo, che però ha bucato con gli ultimi film. Ha cominciato tutto col fisico da pugilatore che piace alle donne, poi ha scoperto la cultura, ma colto non è, e dentro lo sa. E’ uno che apparentemente vuol cambiare, ma vorrebbe tutto, e tutto non può avere: la moglie Marion (Ida Lupino) con cui è sull’orlo della separazione, però anche Connie Bliss (Jean Hagen), che è la moglie del suo migliore amico, e anche Dixie Evans (Shelley Winters), una attricetta che si guadagna la sua giornata non solo con i film. Il produttore Stanley Shriner Off (Rod Steiger) vuole fare firmare a Charles un contratto di sette anni, Charles non vorrebbe ma è ricattabile, perché una notte, in macchina con Dixie, ha travolto un bambino ed è fuggito. Poi ci sono anche l’intellettuale che fa la corte a Marion, lo scherano lucidissimo di Stanley, il complice di Charles che ha pagato per lui: ogni parte, sia pur piccola, è scolpita con evidenza, chissà gli applausi in teatro nei momenti cruciali in cui la pancia (non la testa, non il cuore, la pancia) fa scattare l’applauso. Fra tutti gli attori è una gara a chi fa meglio, credo che sia Rod Steiger a prevalere, un po’ mi dispiace ammetterlo, ma in questo film è di un istrionismo sublime. Fra le donne, Ida Lupino è più spenta rispetto a Shelley Winters vivacissima, ma soprattutto rispetto a Jean Hagen, una seduttrice che smonta con mirabile facilità le buone intenzioni di Charles. Jack Palance è sempre lui: una bestiaccia qui giovane e credibilissima.
La storia finisce come previsto: Charles, stretto fra rimorsi, ricatti, vergogna, si taglia le vene nella vasca da bagno. Il grande coltello lo si guarda ad occhi sbarrati, perché il regista Aldrich è uno tosto: fedelissimo al testo di Odets, ma da animale di cinema, con tempi scanditi a meraviglia. Ma alla fine ti chiedi se quello che succede è poi così importante, e concludi che no, non è importante e neanche vero: non è vita potenziata, quella che si vede nel film, è esagerazione di vita, fatta poi per delle cause ognuna delle quali ha la sua coda di paglia: Charles vorrebbe essere colto e corretto senza pagare pegno, la moglie Marion fa la santa donna ma si è già costruita l’alternativa (per il momento non di letto), Connie e Dixie la mettono sul sesso, ma la spinta è il tradimento di per sé o l'aver bisogno di soldi o ansia di successo, Stanley è talmente cattivo che non ci si crede, in realtà ha pure ragione lui, si trova per le mani un attore che si è montato la testa. Mentre Good Morning Babilonia e Il giorno della locusta entrano a modo loro nel mondo illuso e disperato che si muoveva attorno al cinema, Il grande coltello è una specie di dramma privato in cui un intellettuale, Clifford Odets, fa il grillo parlante a quegli ignoranti di cinematografari (che erano poi quelli che una vera e grande cultura stavano edificando, fra errori e sconcezze).
Per cui la sensazione è un po’ da molto rumore per nulla: si dessero tutti una calmata, gli inutilmente agitati, ognuno provvedesse alla bottega sua ed al letto suo con le necessarie menzogne, non con l’ipocrisia dei buoni sentimenti, della vita nuova ( che poi è la solita) che gli si apre davanti e da ora in poi tutto darà diverso. Non è così nella vita reale né dovrebbe esserlo nella favola chiamata cinema, ma il popolo chiedeva - e chiede - favole, che sono il miglior alibi per non cambiare: la favola del chi sbaglia paga al limite con la vita (non è vero che chi sbaglia paga), la favola che c’è uno cattivissimo che manipola gli altri (non è vero, la manipolazione la cerchiamo tutti). Il pubblico, certamente usciva commosso ed emozionato dal teatro o dal cinema e se ne tornava a casa a riprendere i consueti vizi, però con biancheria fresca di bucato. Comodo.

1 commento:

  1. Ecco cosa scrisse François Truffaut riguardo The big knife ne I film della mia vita, Milano, Edizioni CDE, 1975:

    "The big knife è tratto da un dramma di Clifford Odets che ha ottenuto un certo successo a Broadway e che Jean Renoir ha intenzione di allestire su un palcoscenico parigino.
    L’azione si svolge a Hollywood ai nostri giorni, nella casa di un celebre attore: Charlie Castle (Jack Palance) che sta per essere lasciato dalla moglie (Ida Lupino). Da poco la casa di produzione alla quale Charlie è legato per contratto gli ha evitato uno scandalo: in compagnia di una divetta, Charlie ha investito un bambino ed è fuggito. L’addetto alla pubblicità si è fatto qualche mese di prigione al posto di Charlie e la divetta si è vista raddoppiare lo stipendio.
    Una giornalista specializzata in scandali vorrebbe far luce sulla faccenda e i suoi pettegolezzi sono temibili.
    D’altronde Charlie potrebbe riconquistarsi la moglie se “mollasse” la casa di produzione e partisse con lei. Ma il produttore non la pensa così: se l’attore non rinnova il contratto per sette anni avrà contro proprio quelli che avevano soffocato lo scandalo.
    Nel momento in cui tutto sembra sistemato e in cui la coppia si appresta a lasciare Hollywood, Charlie si suicida per sfuggire a un mondo di cui non sopporta le leggi, ma soprattutto per sfuggire alla sua vergogna.
    Ci si può chiedere se vale la pena di filmare drammi soprattutto se ci si priva dei vantaggi del libero adattamento come in questo caso. Credo tuttavia che sia naturale che un cineasta, interessato alla tecnica della sua arte e con in più una certa esperienza teatrale, sia tentato di piegare un testo di una certa tenuta letteraria forgiandolo con le infinite possibilità del découpage cinematografico.
    Se Robert Aldrich non ha fatto altro che filmare un dramma, ha messo in scena cinematograficamente una messa in scena teatrale, ha dato cioè un taglio filmico a una messa in scena super-teatrale. Questi pugni sui tavoli, braccia alzate al cielo, questi movimenti bruschi dei corpi derivano certamente dal palcoscenico, ma Aldrich impone loro un ritmo, un respiro che gli sono propri e che rendono affascinante questo suo film minore.
    Aldrich con il suo lirismo, la sua modernità, il suo rifiuto della volgarità, con il suo desiderio di universalizzare e stilizzare i soggetti che affronta, con il suo senso dell’effetto ci fa pensare costantemente a Jean Cocteau e a Orson Welles i cui film evidentemente non ignora.
    L’azione di The big knife avanza non per il gioco dei sentimenti né per quello delle azioni ma – e la cosa è più rara e più bella – per definizione morale dei personaggi. Man mano che il film procede, il produttore è sempre più produttore e la divetta sempre più divetta fino alla lacerazione e alla tragedia finale.
    I film di questo genere richiedono un’interpretazione eccezionale e in questo siamo perfettamente soddisfatti da Jack Palance, Ida Lupino, Shelley Winters e soprattutto da Rod Steiger che interpreta magnificamente il ruolo di un produttore patriota e democratico, feroce e sentimentale, assolutamente delirante.
    Oltre a presentare un affresco molto esatto di Hollywood The big knife è il film americano più raffinato e intelligente che abbiamo visto da molti mesi a questa parte".

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