lunedì 14 maggio 2007

Washington Square

Washington Square di Agnieszka Holland (1997) Dal romanzo di Henry James, Sceneggiatura di Carol Doyle Con Jennifer Jason Leigh, Albert Finney, Ben Chaplin, Maggie Smith, Jennifer Garner Musica: Jan A.P. Kaczmarek Fotografia: Jerzy Zielinsky (115 minuti) Rating IMDb: 6.4
Solimano
Il punto è che il padre di Catherine da una parte e Morris Towsend dall’altra si capiscono perfettamente. Hanno un loro mondo di convinzioni consolidate che non sono disposti a modificare, sanno quello che vogliono e lo perseguono. Catherine non è così: timida, goffa, brutta, bisognosa d’amore, sballottata fra il padre e Towsend, presa in giro da entrambi, che sono certi di pilotarla come pare a loro.
La regista Holland è intelligente e sensibile, nel film mostra come da una tale debolezza possa scaturire forza: gli sconfitti saranno proprio loro due, lobotomizzati dal cinismo della loro intelligenza.
Sconfitto è il padre, la cui freccia del parto del testamento che priva Catherine delle ricchezze - a parte la casa e la rendita materna - è l’evidenza finale che serviva a Catherine per chiudere i conti col dominio di decenni che ha dovuto subire: tocca con mano quanto il padre è più piccolo di lei, e senza nessun tipo di astio gira una pagina troppo a lungo rimasta aperta. La lettura del testamento è per Catherine, fra lo sbalordimento degli altri, un lieto satori, con gli occhi - belli - di Catherine-Jennifer che sprizzano ironia e autoironia.
Sconfitto è anche Towsend, perché Catherine, che ha vissuto e sofferto un grande amore, ormai è in grado di distinguere fra la bellezza dolorosa del suo sentimento e la miseria della persona a cui l’ha rivolto. Ora non ha nessun bisogno di disprezzare: quella persona è quello che è, non c’è niente da fare con uno così, ma i pensieri, le fantasie, le lacrime, le speranze, le delusioni che una persona simile le ha ispirato, permangono nella sua vita, sono la storia della sua affaticata crescita, infine premiata dall’amore vero verso se stessa, amore che ora sa di meritare, se l’è sudato giorno per giorno. Poiché ama se stessa, ora anche gli altri - il mondo non è fatto solo di aridi come il padre o Towsend - l’amano, Catherine rifiuta nuove possibilità di matrimonio, perché ha già investito quello che doveva in modo totale. La persona era sbagliata, non il suo sentimento così generoso, coraggioso, pieno.
E’ la grande forza dell’amore infelice, che esiste e fa soffrire, ma che se viene vissuto a prescindere dal riconoscimento permette infine di leggere sé, e gli altri attraverso sé. Non è misera vendetta, l’allontanare definitivamente Towsend, è che la sua presenza offuscherebbe di dettagli inutili e sgradevoli il ricordo pieno che Catherine ha dentro. Memoria non di lui, ma di sé stessa, le volte che si è fidata, le volte che ha dovuto tacere, le volte che il padre l’ha ferita sapendo di ferirla, con le parole, con i silenzi, con gli sguardi soprattutto: una figlia vissuta come un inciampo fin dalla nascita. E’ lui il minus habens, il dottor Austin Sloper, che la donna ricca lui era riuscito a sposarsela, che non sbaglia nulla nel suo lavoro, che le parole le pesa una per una, che - soprattutto - è talmente misero da cercare di perseguitare la figlia anche dopo morto. Esistono persone così, più di quel che si creda: se non hanno qualcuno da dominare, su cui infierire, finisce il senso che hanno dato al loro vivere. Più o meno, come Towsend, che giunge a lodare con Catherine il tentato contratto: la bellezza di lui, i soldi di lei.
Sono convinto che tanti soffrano di sintesi premature in cui eliminano il meglio di sé perché non sanno come farci i conti, e diventano dei ripuliti robot, avanti tutta con anniversari e rogiti, tesoro mio e amore comandato. Catherine, con la sua capacità di reggere la sofferenza, di comprenderla appieno, non vince perché è lei ad avere l’ultima parola, vince perché non ha bisogno di ultime parole, si è chiamata fuori dal gioco altrimenti invincibile: quello delle dominanze, che invece schiaccia i due uomini.
Il film l’ho guardato lucido e commosso, Jennifer Jason Leigh mi è piaciuta, sa essere moderna e antica, il film si regge sulle spalle sue - belle - e su quelle della regista Holland. E' bene raccontare l’amore con tale schiettezza, non se ne può più delle due congruenti fughe, quella verso il sublime e quella verso il ginnico, non so quale delle due sia peggio. Fateci caso, se si parla d'amore in compagnia quasi tutti - e tutte - o stanno sul generico o svaccano nel triviale, il motivo ci sarà. Ma persone come Catherine esistono, basta accorgersene.

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