mercoledì 18 aprile 2007

La collezionista

La Collectionneuse di Eric Rohmer (1967) Con Haydée Politoff, Patrick Bauchau, Daniel Pommerreule Musica: Blossom Toes, Giorgio Comelsky Fotografia: Néstor Almendros (89 minuti) Rating IMDb: 7.1
Solimano
La colpa fu della frangetta. Io ero di Bologna, il mio collega di Padova e lavoravamo a Verona: ogni tanto ci toccava restare di sera e andavamo al cinema, per tirare un’ora passabilmente tarda. Quella sera facevano un film francese - ahi ahi - di uno sconosciuto, eravamo incerti se entrare o no, solo che la ragazza del manifesto aveva una frangetta sin quasi sugli occhi, e volli andarla a vedere, la collezionista. A luci accese la sala del cinema era imbarazzante: noi due seduti vicini, poi qualche solitario sparso qua e là, morosi niente. Haydée (Haydée Politoff) è una ragazza di poche parole, si trova per combinazione ad alloggiare nella stessa casa sulla Costa Azzurra di Adrien (Patrik Bauchau) e Daniel (Daniel Pommereulle), rispettivamente mercante d’arte e pittore, che hanno qualche anno più di lei e che parlano molto, specie Adrien che nel film si racconta in prima persona. Haydée ama starsene in mare o sulla spiaggia, però alla sera esce per conto suo e generalmente torna accompagnata da qualcuno - sempre diverso - che passa la notte con lei. Adrien e Daniel un po’ ci ridono su un po’ sbuffano, cercano di prenderla in giro sfruttando la loro superiorità di chiacchiere, Haydée non risponde quasi mai o per ottusità o perché se ne frega di loro due, che vede coalizzati contro di sé. La coalizione dura poco, una notte tocca a Daniel, e Adrien non gradisce questa caduta di gusto dell’amico pittore, allora Daniel decide di andarsene. Rimangono soli Adrien ed Haydée, ed ognuno fa vita per conto proprio, salvo una visita ad un ricco cliente di Adrien, che furbescamente invita Haydée ad accompagnarlo. Il cliente è uno losco che cerca di prendersi delle libertà con Haydée - Adrien lo prevedeva, forse lo sperava - ma Haydée non ci sta e si becca uno schiaffo. Adrien prende le parti di Haydée e partono insieme in macchina verso casa, sembra giunto il loro momento. No, la macchina si ferma in coda e Haydée comincia a parlare con passanti che conosce, scendendo dalla macchina. Adrien scende anche lui, apre il bagagliaio, scarica il piccolo bagaglio di Haydée e, visto che la strada ora è libera, parte veloce e molto orgoglioso di sé. Quando arriva a casa, la giornata è bellissima: il sole, il mare, il cielo, la natura. Ma Adrien non ce la fa più: telefona ad una amica lasciata due settimane prima, rappattuma il rapporto, e prima di notte parte per la città. Ci rimasi male, ad un finale così: avevo simpatizzato per il chiacchierone Adrien per tutto il film, e quella partenza mi sembrò una sconfitta - proprio quello che era. Il film è ricolmo di chiacchiere, noi non ci eravamo abituati, soprattutto a quel tipo di chiacchiere, fatte come uno che si mette di profilo per far vedere che bel profilo che ha. L’eloquenza vera era di Haydée, con i suoi silenzi ostinati e tranquilli, col suo corpo che Rohmer esplora con lunghe inquadrature - nessuno parla allora, si sente solo il vento e il mare. Pur pedante come ero, compresi che Haydée aveva delle ragioni che Adrien, più istruito, più ricco, anche bello - di profilo - non era in grado di scalfire: Adrien è un essere del tutto amorale però bisognoso per autodifesa di una costruzione morale. “Si grattano!” così ha detto Eric Rohmer riguardo le chiacchiere di tanti suoi personaggi tipo Adrien. Il mio collega era meno istruito e pedante di me, e uscendo dal cinema mi disse: “Ne ho capito poco o niente, ma questo regista la sua da dire ce l’ha”. Quella sera avevo visto il mio primo film di Rohmer; ne è passato del tempo, ma con Rohmer non ho ancora smesso. Faccio fatica i primi dieci minuti, un quarto d’ora al massimo, poi mi prende nella sua ragna e ci sto benissimo.

1 commento:

  1. Inserisco ciò che Michele Mancini scrisse riguardo a La Collectionneuse nel libro del Castoro (1988) dedicato a Rohmer:

    "Interessato com’è all’anima, a quel che si sottrae al proprio destino d’immagine, Rohmer è in qualche modo destinato a sfidare il cinema cosiddetto "non di finzione", a operare sul terreno che divide la parola dall’immagine, dalla fiction e dalla informazione: "Bisogna fare una specie di violenza al cinema stesso che, benché dotato di un’attitudine documentaria innata, non è sempre in grado di trattare certi soggetti, perché non visivi. Detto in altri termini, bisogna "visualizzare". Provo una certa ripugnanza alla cosa e, al tempo stesso, ne sono interessato: provo ripugnanza a render visivo un qualcosa che non lo è ma, quando quel qualcosa può diventarlo, si rivela estremamente interessante. Occorre intervenire per via indiretta, bisogna trovare questa via. Quel che mi interessa è far conoscere con il cinema cose che si sottraggono alla conoscenza di questo mezzo" (L’Ancien et le nouveau, cit.).
    (...) Nel primo prologo de La collezionista, dedicato a Haydée e limpido omaggio alla sua bellezza, lo sguardo della m.d.p. e la scansione del montaggio sono ostentatamente fisiologici, quasi antropometrici. Su una spiaggia, col blu mediterraneo che le fa da sfondo, la giovane passeggia in bikini. La m.d.p. panoramica a seguire, inquadra le gambe, i piedi nudi; Haydée si ferma, si gira, torna indietro; una panoramica discende lungo il suo corpo, frontale e quindi di schiena; infine, stacchi rapidi, in dettaglio, di collo, ventre e nuca. Nessun’altra informazione: il prologo di presentazione di Haydée non ha commento e il sonoro è limitato al rumore delle onde. Una presentazione muta che, a rigore, si mantiene fuori del registro del narratore. È stato detto che Haydée si identifica con la natura (cfr. Claudejean Philippe, "Les affinités sélectives" in Cahiers du cinéma, n. 188, che non dimentica di notare come il suo nome, nei titoli di testa sia scritto in verde): con quella natura cui Adrien, il narratore, dichiara di voler tornare, almeno per le due settimane di vacanza che intende concedersi (all’ombra di un grande albero, leggerà ostentatamente le opere complete di Rousseau).
    In effetti, il personaggio di Haydée è povero di riferimenti: non sappiamo se lavori o no, da dove venga, come viva, ecc. È, e basta. Spunta fuori e silenziosamente, con la sua presenza, il suo corpo longilineo, il sorriso sconcertante, si impone. "Mi sono spesso domandato che significa il tuo sorriso". Haydée: "Niente". Adrien: "È quel che pensavo". Si può pure, in vena di riferimenti letterari, accostarla all’Albertine proustiana, ma accontentiamoci intanto di cogliere, nel sorriso che non significa niente, proprio il niente del sorriso, lo sguardo cieco e incosciente della perdita di sé (e dunque dell’offerta incondizionata di sé), della beatitudine ottusa e attraente, come il sorriso e lo sguardo degli angeli: della seduzione.
    Il che non significa che Haydée sia stupida, nonostante i continui insulti che le rivolgono i due uomini (puttanella, conne, insignificante, laida, budino, beccaccia ecc.). Lei si difende dall’aggressività dei maschi insicuri e narcisisti con misteriosa pazienza, con remissivo e lungimirante buon senso. Adrien continua a carezzarle una gamba nuda con calcolata distrazione: "Sapevo che le gambe di una ragazza di cui non mi piace il naso mi avrebbero lasciato freddo". E Haydée, tranquilla: "Bene, non toccarle". Sostiene la parte, come nota Marion Vidal, della rohmeriana seduttrice passiva, quale sarà propriamente la Claire di Le genou. E questa ambigua passività "acquatica" (il mare è presente nel prologo di presentazione – e conosciamo la funzione che svolge l’acqua nei contes) è tanto affascinante quanto insidiosa.
    Nel mare Adrien prova dolcemente a perdersi: "Mi sforzavo persino di non pensare. Ero finalmente solo davanti al mare, lontano dai riti della spiaggia. Appagavo così un caro sogno della mia infanzia, sempre deluso di anno in anno. Cercavo di posare sulla distesa azzurra uno sguardo il più vuoto possibile, privo di ogni curiosità di pittore e di naturalista, perché forse se avessi seguito una mia inclinazione avrei passato la mia vita a collezionare e catalogare erbe. Mi abbandonavo al solo incanto dei giochi di luce ed ombra fino ad entrare in un letargo che il bagno favoriva. Questo lato di passività, di disponibilità totale, sembrava destinato a durare molto più di quella specie di euforia che dà il primo contatto con il mare".
    Il mare, la flora acquatica, sono altresì oggetto di sapere, di interesse naturalistico. Alcune inquadrature di vegetazione marina (di alghe che fluttuano dolcemente sotto il pelo dell’acqua limpida) sono realizzate con tecniche di macro-ripresa di tipo documentaristico. In questo senso la stessa Haydée si espone, come affascinante e indolente oggetto di natura, allo sguardo naturalistico, a quello del sapere; si oppone, come oggetto di conoscenza, alla dichiarata volontà di conoscenza, di tutto sapere che inalberano i due uomini. E, com’è d’obbligo per l’oggetto, si sottrae. Sibillina e apparentemente superficiale, si gioca tutto il fascino ambiguo della superficie, dell’apparire dell’immagine, che è poi il modo in cui si dà ogni richiamo di seduzione.
    Nel prologo Rohmer – quando la presenta e ne valorizza figura, pelle, linee anatomiche – ci presenta in fondo un corpo sezionato dai vari campi che con amore egli di fatto mutila. In una delle sue micidiali poesiole Lacan recitava: "je t’aime/mais, parce qu’inexplicablement/j’aime en toi quelque chose/plus que toi /l’objet petit à/je te mutile" (Le Séminaire, livre XI, Paris, Seuil, 1973). Da una tal presentazione risulta che la donna è una parte, non è tutta: assunto non tanto perverso o feticista (cfr. appunto Le genou de Claire), quanto fondamentale nel dar conto della resistenza della "donna" (del corpo) alla rappresentazione, proprio nel momento stesso in cui si offre all’immagine e alla sua riproduzione.
    Di qui, la seduzione. Non solo della donna, ma forse del cinema stesso, fondato com’è sulla mancanza (del corpo) che costituisce l’immagine. Documento e fascino di un’assenza, di un set perduto, sono queste le ossessioni che perseguitano il Rohmer cineasta ma, anche e forse più esplicitamente, il Rohmer critico (cfr. Le celluloid et le marbre, cit.). Ma la presentazione di Haydée, scandita da tanti tagli del campo, pur se ovviamente finalizzata alla ricomposizione dei dettagli nella figura intera (nella figura dell’intero: sommatoria di cui si fa carico l’immaginario), può a rigore resistere al montaggio e presentarsi allora del tutto smontata, disarticolata, come un corpo in frammenti, corps morcelé. Corpo orrido e affascinante, su cui l’immaginario si lacera lasciando intravvedere le profondità del reale: attrazione e pericoloso invito per il soggetto a perdersi.
    È soprattutto per questo che non poteva esserci migliore presentazione della seduttrice dei contes: per i protagonisti maschili, costantemente protesi a rafforzare il proprio io (si comprende come il puntello della "morale" divenga fondamentale) la seduttrice come fantasma di disgregazione attrae sì ma è da sfuggire. Non è solo per puritanesimo, dandysmo, o addirittura razzismo che Adrien non può conoscere Haydée. Haydée, la donna della seduzione (la donna tout court), è l’impossibilità del personaggio maschile dei contes, il pericolo di una perdita libidica dell’io e della frana della sua formazione protettiva morale: dunque, dello stesso apparato narrativo che morale è".(...)

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