Giuliano
Ad un certo punto, in "Au hasard, Balthazar" , compare una radio a transistor. Siamo nel 1966, le radio portatili erano ancora una novità: non tutti ce l'avevano. Il ragazzo a cui viene regalata l'accende subito, e ne esce una musica insipida che però piace, e non poco; il ragazzo la porta con sé ovunque. Robert Bresson, l'autore del film, non lascia nulla al caso, e la presenza di questa radiolina, per di più in mano ad un personaggio negativo, è il segnale del cambiamento che sta avvenendo nel mondo. Un mondo - il nostro - che è rimasto uguale a se stesso per millenni, ma che da allora ha cominciato a cambiare, repentinamente: non so quanto un ragazzo di vent'anni oggi se ne possa rendere conto, ma i miei nonni facevano parte di quel mondo e forse la mia è l'ultima generazione che può arrivare a capire questo film.La radiolina, accesa in aperta campagna, rompe un incanto che durava da sempre. E' la fine di un'epoca: anche l'asino protagonista del film (l'asino Balthazar) viene ripetutamente dichiarato vecchio, inutile, sorpassato, ridicolo: fino alla sua morte, nel finale. L'asino di Bresson è l'ultimo testimone di un'epoca, e il nuovo che avanza è comodo e bello, ma è anche invadente, volgare, stupido, inutilmente rumoroso. Con lui, muore anche l'onesto maestro di scuola con i suoi princìpi all'antica e vincono il rumore, la volgarità, la violenza. Come Pasolini, col suo discorso sull'omologazione e la sua paura della tv, anche Bresson era in anticipo di 40 anni e ha fotografato benissimo, da così lontano, i tempi che stiamo vivendo e dei quali la radiolina a transistor, che rompeva l'incanto del bosco e della campagna, era solo l'inizio, la prima crepa della frana che poi è smottata su di noi (la pubblicità, la volgarità, la stupidità dilagante). Abbiamo buttato via una cultura vecchia come l'umanità, e tutti gli archetipi ad essa associati, per avere in cambio una radiolina qualsiasi, che trasmette soltanto dediche, canzoncine e (soprattutto) pubblicità. Ci siamo venduti l'anima: non per denaro o per conquistare il mondo, ma per una radiolina portatile...
Giuliano, Au hasard Balthazar è un miracolo, come idea, come film, come volti e rapporti. Ci hanno messo del tempo, ma pian piano si stanno accorgendo della grandezza di Bresson - non solo qui - e della sua durata attraverso i quarant'anni dei suoi film, pochi ma non pochissimi. Nella sua serietà sempre assoluta, aveva un gusto finissimo: i volti delle attrici sono singolari,esprimono dolore che si sublima in bellezza. E' lui ad avere scoperto Anne Wiasemsky e Dominique Sanda, ma anche i volti di Mouchette e della protagonista del Journal si ricordano sempre. Ho scoperto solo di recente Les Dames du Bois de Boulogne, che si collega a Diderot. Prima lo riguarderò e poi ne scriverò, è una storia lucida, come se fosse un Pascal che indossa l'illuminismo. C'è anche Maria Casares, che nello stesso anno (1945) stava recitando in Les Enfants du Paradis di Carné, sceneggiatura di Prévert, ho il VHS comprato alla Paolina, solo lì si trovavano quei film. Adesso cambierà, molti stanno aprendo gli occhi.
RispondiEliminasaludos
Solimano
Così Giorgio Tinazzi su "Il cinema di Robert Bresson" Marsilio:
RispondiElimina"In una lunga e illuminante intervista con Bresson Godard ha parlato a proposito di questo film di opera di arrivo “totale”; in effetti giungono per molti versi a definizione, forse anzi a conclusione alcune ricerche che si consolidano poi in Mouchette. Viene in luce più chiara infatti l'apparente contraddizione strutturale di un film calato nelle cose e nei fatti la cui tendenza però è verso la depurazione significativa, se non simbolizzante, in una dialettica tra realismo e astrazione che si è andata progressivamente delineando. L'andamento di parabola si coglie come primario, con le conseguenti operazioni di divisione, di dilatazione, di caricamento, di schematizzazione delle linee portanti; ma accanto, concomitante, vi è una forte spinta alla “collocazione”, al realismo si direbbe, il mondo si ispessisce invece di rarefarsi, si è scritto giustamente. Saranno le stesse valenze stilistiche di Mouchette.
Dal punto di vista tematico, sembra quasi che il negativo si dilati: dietro l'asse del rapporto tra scelta e preordinazione, tra il caso (che appare nel titolo) e la recettività assoluta, si avverte pieno il senso del reale subíto, il peso di una storia inevitabile e normale, secondo una definizione pertinente; il male, sempre più entità ontologica, e la violenza si ramificano, la morte o la “fuga” appaiono come il punto finale.
Stilisticamente, il perno è costituito dalla figura del testimone e dalla scansione allegorica delle sue “tappe”: “guardo con l'occhio di un giudice”, ha detto Bresson, sottolineando il fatto che quella che finora era stata una presenza corposa ma secondaria (il testimone, appunto) passa ad essere il polo di un'opera. Attorno a essa la tensione parabolica si articola e determina i ritmi interni. Su questa proposta il regista rischia l'evidenza didattica (i vizi - le tappe) o il parallelismo esplicito (la vita dell'asino - la vita dell'uomo), i contrappunti ideologici (quell'essere “candido” e “semplice” di cui parla il regista), la spinta rinforzante intellettuale (le reminiscenze bibliche, o colte). Dunque, un'operazione sottile, nella quale far intervenire l'abituale abbassamento, togliendo lo spessore drammatico, puntando all'osservazione: Balthazar è uno sguardo, ha scritto Ferrero.
Il problema era anche narrativo, di salvare l'uniformità (o l'unità) di fronte alla divisione in blocchi, le cui linee di incrocio potevano apparire o predeterminate o rischiosamente divergenti. Vi era poi un equilibrio da mantenere: da un lato c'è l'accentuazione di alcuni elementi “rituali” (il battesimo di Balthazar o - per altro
verso - il circo, la “ saggezza ” o la messa in scena), cioè un vero trasferimento segnico che carica gesti e significati ma contempora-neamente la struttura stessa esigeva che anche i gesti senza peso venissero inseriti nel complesso, con la loro non apparente liturgia significativa. Lo sforzo poteva rivelarsi preordinato, rendendo in-tellettualistico il tentativo di prendere “dal vivo” i significati se-condi. D'altronde, la rottura poteva anche attuarsi nel rapporto dif-ficile tra i diversi momenti che si contrappongono, ad esempio, tra proiezione soggettiva (Maria che accarezza Balthazar), l'ironia-realtà (i due ragazzi: “Come nella mitologia”), e poi l'urto (la se-quenza che segue, le motociclette che circondano la ragazza).
Il punto di sostegno è quello Maria-Balthazar, cui afferiscono i vari episodi, e in questa prospettiva quasi non contano le conseguenze temporali: les années passent dice semplicemente una didascalia all'inizio. Gli elementi di rinforzo della griglia principale sono di diverso tipo: narrativo, come per il momento di tensione-allentamento rappresentato dalle indagini attorno ad Arnold (il delitto non commesso); descrittivo, come per la collocazione “geografica” (i fatti, i lavori, i ritmi quotidiani, già intravisti nel Diario) o per quella sociale (la “povertà” della famiglia di Maria). Si giunge agli inserti didattici, che stridono nel contesto; è il caso del dialogo tra il pittore e il turista vicino alla cascata o del professore e l'allievo.
Avverti dietro un pessimismo che si radica e cresce. I destini si intersecano e “si ledono”, l'innocenza e la naturalità vengono violate, lo scacco è l'approdo, la morte di Balthazar riprende il peso iniziale (la bambina malata), diventerà il rifiuto di Mouchette; i legami col male, il continuo rimando sono in fondo la vera indecifrabilità. Lungo l'arco della parabola torna il tema dell'interferenza tra caso e scelte, e più ancora tra volontà e predeterminazione; è il caso che lega le “tappe” di Balthazar e le “avventure” di Maria, e c'è anche la volontà di questa di incidere, di cercare (la tensione, dunque). Il “sacrificio” è un passaggio; ma anche in questo film esso può forse assumere connotazioni non univoche, denotare inclinazioni verso una liberazione di ordine metafisico, avvalorato da accostamenti simbolici, da cariche semantiche implicite (i riferimenti biblici).
In fondo però è pur sempre la “perdita” il momento che più interessa, e già l'inizio lo fa intuire: la naturalità, l'amore (e talora i gesti convenzionali che lo caratterizzano), l'“ombra” che si proietta sul quadro (la malattia di Luisa). Poi lo sviluppo di queste premesse si amplia; sul piano dei soggetti gli altri si insinuano come negativo, la lettera contro il padre il Maria, il rapporto con Jacques che si incrina (“Fa che questa storia non si metta tra noi”, esclama Maria prevedendo le conseguenze). Sul piano dei fatti è il loro collegamento che ci sfugge, il loro costituirsi in legge che ci sovrasta; l'avanzamento della narrazione è anche questo manifestarsi come determinazione.
Su questa trama di motivi si muovono i personaggi, anzi, come forse ha giustamente precisato un critico, non personaggi, ma “segni individuali”, cioè corposamente emblematici, non “soggetti” drammatici. Maria, in parallelo a Balthazar, è l'asse ideologico del racconto, come lo sarà Mouchette del film seguente; la sua parabola è dall'innocenza alla fuga, articolando il tema della perdita. Disponibile, diventa progressivamente disincantata, “egli ama le sue sventure molto più di noi, ne ha bisogno”, afferma circa il padre. Alla radice c'è la sua ambivalenza, l'attaccamento a Balthazar e l'amore per Gérard, il naturale e l'attrattiva del male; la scena degli schiaffi e dell'abbraccio è quasi didascalica, ma piena di risonanze. (...)
(…) I brevi inserti descrittivi di luoghi di azione (il tribunale, il posto di polizia, o il mercato) acquistano una loro pregnanza proprio in virtù della cifra realistica: come gli oggetti, o i rumori (la campagna, il lavoro, la fatica, e ancora l'ostile); anche la musica interna al film dà sempre il senso dell'urto, della dissonanza (il transistor, la festa di Arnold).
Proprio per questo fa da contrasto col pianoforte della colonna sonora (il secondo movimento della sonata n. 20 di Schubert), una sorta di commento appena sottolineante: la parte riguardante i momenti dell'infanzia, il ritorno di Balthazar, Balthazar malato, il finale, tutto risolto in giochi di piani e di rumori (e il loro accordo straniante riscatta il possibile caricamento allegorico preordinato).
Certo, il processo di riduzione rischia il didascalismo (magari voluto) come nei dialoghi del mercante (l'avarizia, il denaro, la morte). Ma raggiunge la piena espressività quando arriva al procedimento bressoniano dei particolari, gli sguardi, i gesti , i silenzi, le allusioni, le ellissi (la più volte citata sequenza dell'olio sparso sulla strada per provocare l'incidente).
Tutto ciò, sintomo di una tendenza generale, è un'operazione pericolosa. Il rischio c'è, e Bresson probabilmente ne è cosciente. Nei particolari può portare a richiami trasparenti, nella struttura la stu-diata frammentazione può arrivare a una perdita di coesione, a uno squilibrio nel delicato rapporto degli elementi espressivi, tradito
magari da taluni sostegni ricercati (le punte didascaliche, ad esempio).
Può essere anche il riflesso di un tessuto ideologico che, pur rimanendo complesso, è volutamente ridotto a dati essenziali, col pericolo dello slittamento semplificante o dello schematismo; la “facilità” che talora si avverte nella rappresentazione del negativo (ed è un appunto che si fa a Bresson) può essere la prova più che di un “manicheismo medievale” (come taluno vorrebbe), di un equilibrio che può rompersi: il lavoro di scavo che diventa troppo allusivo, o per sintomatico rovesciamento - troppo pregnante.
Un rischio, allora, non solo di questo film. Ma cosciente, come quello di chi opera coerentemente (e ostinatamente) nel senso della depurazione del reale".